La quiete prima della strage: vivere e morire a Marzabotto

Il film narra la montagna emiliana alla vigilia dell’eccidio nazista senza revisionismi e accuse postume. Nel cast la Sansa e la Rohrwacher

La quiete prima della strage: 
vivere e morire a Marzabotto

Roma - L’ossessione della memoria è la negazione della storia. I grossi festival, come quello di Roma, sono luoghi deputati per richieste di scuse, se non di risarcimenti. Al pervenire del risarcimento morale corrisponde il perdono? È incerto. Invece è certo che il rivangare il dolore ravviva il rancore. E poi ha senso offrire il perdono quando c’è già l’oblio? Certe vertenze non portano sempre agli esiti voluti da chi le apre, nemmeno quando sono sostenute da opere che le sostengono, come il film - sostenuto finanziariamente dalla Regione Emilia e della Regione Toscana e «d’interesse culturale nazionale», quindi anche dallo Stato - intitolato L’uomo che verrà e diretto da Giorgio Diritti, che ieri è stato presentato in concorso.
Nello stile da Albero degli zoccoli, ma con meno mezzi, Diritti racconta i dieci mesi di Marzabotto prima della strage del settembre 1944. Fin dal titolo fiducioso nell’avvenire, il film si pone nella prospettiva del progresso. Strano, perché racconta un ambiente - l’Appennino emiliano di 65 anni fa - che al progresso s’era sottratto, annoiandosi, ma senza patirne troppo, come spesso ci hanno raccontato i film di Pupi Avati.

A proposito di Avati e dei film da festival: Alba Rohrwacher, ancora nel personaggio di una ragazza di modeste origini e venuta da Bologna, fa pensare che il suo personaggio sia fuggito dal manicomio criminale del Papà di Giovanna solo per finire in un altro orrore.
Digressione chiusa: Diritti non è nostalgico e intimistico come Avati, così lascia sullo sfondo i sentimenti privati a vantaggio dell’incombente dramma collettivo. Bolognese anche lui, lanciato da un film piaciuto alla critica e al pubblico dei cinema d’essai, Il vento fa il suo giro, Diritti s’è dato alla ricostruzione del dialetto d’allora, il primo sentito in vita sua dal vostro critico. Fosse solo per questo lavoro meritorio, il sostegno pubblico al film avrebbe un senso. Gli attori o conoscevano già il dialetto o hanno devotamente imparato, come Alba Rohrwacher. Anche Maya Sansa ci ha provato. E questa serietà pone L’uomo che verrà ben di al di sopra della media dei film italiani, nei quali si dice «zoli» per soli e «inzieme» per insieme.

Sul significato politico - antirevisionista, come ha detto Diritti in conferenza stampa - L’uomo che verrà è, specie all’inizio, rispettoso della realtà. Il più vistoso anacronismo è il manifesto di arruolamento nelle Ss italiane, apparso nella realtà febbraio 1944, ma nel film preceduto di poche immagini dalla didascalia «ottobre 1943». Un’inezia, quindi. E poi l’intento del film di Diritti non è quello apertamente (ri)vendicatorio - tipo I sette fratelli Cervi di Gianni Puccini - anche perché sono passati sessantacinque anni dagli eventi. I sopravvissuti non saranno a lungo tali; come non lo saranno gli uccisori.

Nella conferenza stampa di ieri è tornato fuori il ritornello del crimine impunito per colpa dell’Alleanza atlantica. Ma nella storia si dà e si prende: se quei militari tedeschi non sono stati puniti per aver eseguito i loro ordini, non lo sono stati nemmeno quelli italiani che ne avevano eseguito di simili in Croazia. E ciò sempre grazie all’Alleanza atlantica e agli accordi della Guerra fredda. Che presto sarebbe diventata calda, dandosi alle vendette postbelliche.

Dove il film di Diritti si rende la vita difficile è dal lato spettacolo. È vero che la vita di campagna è scandita dalle stagioni, non dai minuti, come la vita di città. Ma è qui che vive chi dovrebbe vedere il film.

Difficile mostrare la monotonia, prima del dramma, senza annoiare? Basterebbe sfrondare il film, che è di due ore. Meno di un’ora e mezzo bastava a John Ford e Raoul Walsh per storie a sfondo rurale dove alla fine tanta gente veniva ammazzata.

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