Il raìs strizza l’occhio alla diplomazia ma adesso scoppia la bomba Siria

COMPROMESSO Per uscire dalla lite tra i big dell’Alleanza, comando a un generale canadese

Il raìs strizza l’occhio alla diplomazia ma adesso scoppia la bomba Siria

Mentre i volenterosi, o forse la Nato o forse i due/tre Paesi che contano, nominano il generale canadese Charles Bouchard responsabile operazioni militari contro Gheddafi, con un compromesso al ribasso ben segnalato dalla nazionalità del prescelto, torna d’attualità quell’effetto domino evocato quando l’addio di Mubarak seguì quello di Ben Ali. Anche se in teoria si apre uno spiraglio per la conclusione rapida della crisi libica. Infatti il governo di Tripoli ha fatto sapere di essere pronto ad applicare il piano dell’Unione africana: cessate il fuoco immediato; aiuti umanitari; protezione degli stranieri; dialogo per fissare elezioni democratiche. Una road map che potrebbe andare bene anche all’Onu.
Ma il giorno della settimana dedicato ad Allah è il venerdì e anche ieri, ormai puntualmente dall’inizio della Rivoluzione tunisina (iniziata il 17 dicembre, venerdì), in alcuni Paesi arabi la popolazione ha occupato le piazze per chiedere libertà. In Siria, Paese-chiave del Medio oriente, le promesse del presidente Bashar Al Assad non sono servite a fermare la rivolta, che da Daraa si è diffusa in tutto il Paese, dove secondo la tv Al Arabiya ci sarebbero stati almeno 30 morti. E nello Yemen, dove Ali Abdallah Saleh sta trattando l’abbandono anticipato del potere, gli oppositori sono scesi in piazza per «la giornata dell’addio» (al raìs) e si sono scontrati con i sostenitori del regime. Il tutto, all’estremo Sud della Penisola arabica come nel cuore del Medio oriente, dopo le preghiere del mezzogiorno e del pomeriggio, i riti «congregazionali» più importanti della settimana islamica.
E nelle stesse ore è tornata a manifestare il suo scontento anche la minoranza sciita dell’Arabia Saudita, che ha protestato a Safwz, Qatif e Hasa, le città dell’Est dove mercoledì la polizia aveva arrestato un centinaio di persone che chiedeva riforme politiche e il ritiro delle truppe saudite inviate nel vicino Bahrein a puntellare il traballante trono della dinastia Al Kalifa, sunnita come gli Al Saud che regnano sulla terra del Profeta. Proteste di piazza e, per la prima volta, scontri violenti anche in Giordania, nella cui capitale Amman secondo la tv Al Jazeera la polizia avrebbe ucciso un manifestante, la prima vittima dall’inizio delle proteste.
Situazioni diverse ma tutte messe in moto dalla cosiddetta rivolta del pane che scoppiò nel Maghreb alla metà di dicembre. Situazioni che il mondo scruta con un preoccupato interesse e sulle quali, tanto per cambiare, l’Europa si divide.
Da una parte c’è chi come i francesi prova a cavalcare l’onda (per Sarkozy «i leader arabi devono capire che la reazione della comunità internazionale sarà la stessa», intendendo quella della Libia), dall’altra c’è, chi come i tedeschi, è molto più cauto (il ministro degli Esteri di Berlino, Guido Westerwelle, ha detto che «minacciare non è una soluzione»).
Nella capitale siriana, Damasco, l’atmosfera era tesa da giorni, a causa delle notizie relative ai disordini di Daraa. E la protesta esplode dopo la preghiera nella città vecchia, in mezzo ai turisti occidentali e ai pellegrini che tutto l’anno affollano la monumentale moschea degli Omayyadi, uno dei luoghi più sacri ai musulmani di tutto il mondo. Verso la fine delle litanie, nel grande cortile irrompono correndo decine di fedelissimi di Assad che gridano slogan e sventolano bandiere siriane. I turisti fuggono, i fedeli escono dalla moschea e affrontano i baathisti, poi intervengono le forze di sicurezza, che chiudono il portone principale, mentre la città vecchia si svuota. Per strada la polizia in borghese si avvicina minacciosa a chiunque, specie d’aspetto occidentale, provi a scattare foto. Infine, per far cessare gli scontri iniziati nel frattempo, le forze di sicurezza apre il fuoco uccidendo tre persone.
E se in Siria l’apparato repressivo lasciato in eredità da Hafez Al Assad nel 2000 al figlio oftalmologo Bashar mostra i primi segni di cedimento, «picconato» prima dai clan sunniti del Sud e ora anche dai giovani e dagli intellettuali laici che grazie a iniziative inedite come incontri pubblici e tam tam telematici hanno diffuso la protesta nel resto del Paese, in Yemen il potere di Saleh sembra avere i giorni contati. Ieri il raìs di Sanaa, parlando ai suoi sostenitori, ha detto: «vogliamo lasciare il comando in mani fidate, non in quelle di gente odiosa e corrotta».

E gli oppositori hanno pregato sulle bare dei due manifestanti colpiti dalla polizia nei giorni scorsi e poi morti per le ferite riportate e cantato al presidente «Chiunque cade come un martire fa vacillare il tuo trono».

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