Rate, amore e fantasia l’arte (di arrivare primi) dei collezionisti italiani

Pur privo di quei nomi altisonanti e mediatici, come Pinault, Saatchi e Joannou, il collezionismo d’arte in Italia si è sempre dimostrato intrigante e capillarmente diffuso su tutto il territorio, soprattutto in quella provincia ricca che (almeno prima della grande crisi) era la spina dorsale della nostra economia. Penalizzata da un sistema che ne impedisce la defiscalizzazione (e speriamo che a nessuno venga in mente di equipararla ai beni di lusso) l’arte rappresenta davvero una risorsa per chi compra con intelligenza, curiosità e passione. Non ci riferiamo tanto alle fondazioni, create soprattutto per brama di apparire e accedere ai fondi pubblici, ma a una rete di persone molte attive cui piace andar per mostre ad acquistare la cosa giusta al momento giusto.
Prima regola: un’opera non si deve strapagare, per questo nessuno oggi cercherebbe l’inavvicinabile Cattelan o investirebbe su Boetti, che fino a dieci anni fa costava poco e ora uno sproposito. C’è una storia paradigmatica tra i collezionisti italiani, quella di Igino Materazzi, ferroviere di Arezzo, che negli anni novanta approfittando delle pause lavorative, batteva le gallerie più interessanti proponendo l’acquisto a rate, visto che il suo stipendio non gli permetteva grandi esborsi.
Dotato di un intuito fuori dal comune, Materazzi ha anticipato le mode e ora che è in pensione vanta una collezione di livello non trascurabile, soprattutto di (ex) giovani italiani. Di episodi del genere è pieno il nostro collezionismo colto e fuori dai riflettori: si può citare il genovese Enrico La Monica, dirigente della Carige di Genova, appassionato e attento, anche lui compra in anticipo non spendendo più di 30-50 mila euro l’anno e raramente sbaglia il colpo.
La maggior parte dei collezionisti e degli appassionati d’arte che se lo possono permettere acquista arte non per investimento o perché fa moda ma per passione autentica. Capita così di trovare in case normali opere di valore eccezionale, non per quanto costano ma per ciò che vogliono dire. Il più grande dei galleristi italiani di tutti i tempi, Gian Enzo Sperone, non fa nessuna differenza tra una natura morta del ’600 e un dipinto di Julian Schnabel, tra una ceramica di Bertozzi&Casoni e una scultura concettuale di Bruce Nauman. Il padre dei collezionisti italiani, l’ingegner Angelo Baldassarre, ha cominciato a comprare (proprio da Sperone e da Lucio Amelio a Napoli) quando investire in arte era considerata una stranezza, cercando opere sempre giuste e particolari spendendo l’equivalente di 10mila euro di oggi (e tra queste Andy Warhol e Gilbert&George). Nella sua casa di Bari gode dei propri gioielli che presta volentieri per le mostre vivendoci insieme senza angosciarsi con l’ossessione di proteggerli.
Roma è la capitale della passione collezionistica che si trasmette di generazione in generazione. Annibale Berlingieri comprò nel 1967 il più importante Warhol in mano a un privato, raffigurante Elvis Presley, per 7 milioni e mezzo di lire, rivendendolo pochi anni fa ad un museo americano per 85 milioni di dollari. La figlia Lidia con il marito Piervittorio Leopardi ha ereditato la passione del padre, spingendosi sulla giovane scena internazionale e sulla fotografia (Sugimoto, Sherman, Morimura). Ancor più radicata la tradizione della famiglia Attolico, oggi rappresentata dalla sempre curiosa Bianca che cerca il trend giusto pagandolo il giusto; suo padre, senatore del fascio, ambasciatore in Germania e Argentina, raccolse dipinti della prima Scuola Romana fino alla Pop di Schifano, Angeli, Festa e Pascali. Lei ha aggiornato la collezione dedicandosi ancora all’Italia (San Lorenzo, Arte Povera, Transavanguardia fino a Vezzoli) con qualche puntata oltre confine.
Da Nord a Sud, la patria del collezionismo è davvero unita. A Torino, che negli ultimi anni si è autoproclamata città del contemporaneo, uno dei più intelligenti è Renato Alpegiani, di professione dentista che venticinque anni fa militò per un momento nello strano gruppo dell’Arte Debole, strenuo talent scout di pittori americani e sponsor di giovani talenti nostrani, come Nico Vascellari e Luca Trevisani. Tullio Leggeri è un costruttore di Bergamo seguito dal critico e direttore della Gamec Giacinto Di Pietrantonio che lo ha indirizzato, nei tempi giusti, ad acquistare Vanessa Beecroft e Maurizio Cattelan (penso gli debba un cena a vita). Altro imprenditore è Giancarlo Danieli di Montecchio, molto simpatico, noto per condurre le trattative in dialetto vicentino, grande collezionista del gallerista Emilio Mazzoli, amante soprattutto della pittura di grandi dimensioni (possiede opere museali di Schifano, de Domincis, Robert Longo e David Salle). In Emilia, altri ottimi clienti del mercante modenese mentore della Transavanguardia, vivono Ettore e Marisa Magnanini, attratti anche dalla fotografia internazionale di Nan Goldin e Shirin Neshat. Napoli, infine, è la culla di un certo collezionismo d’elite molto raffinato, cresciuto grazie al lavoro di storiche gallerie quali Lucio Amelio (di cui Alfonso Artiaco ha rilevato la sede) e Lia Rumma.

Ernesto Esposito, designer per diverse case di moda tra cui Sergio Rossi, Fendi, Marc Jacobs e Louis Vuitton, è il «principe» delle tendenze più snob e sofisticate. Nel suo patrimonio non manca, ad esempio, Damien Hirst, lo stesso che altrove è stato pagato 150 milioni di dollari.

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