Il realismo di Cagnaccio abbraccia corpi e anime

La vitrea verità dei suoi ritratti riflette come uno specchio i sentimenti dei soggetti

Il realismo di Cagnaccio abbraccia corpi e anime

Cagnaccio di San Pietro (1897 - 1946) contrasta le tendenze dominanti del suo tempo, e si sottrae alle liturgie delle avanguardie e anche alle suggestioni della metafisica per definire un realismo duro, plastico, di vitrea verità. Soggetti fissi, non mossi. Non dipinge, scolpisce.

Dopo una formazione incerta, una prevedibile infatuazione futurista, Cagnaccio, con animo ribelle, fuori da ogni corrente, dipinge La tempesta, datata 1920, dove manifesta «la riconquista della bellezza classica» con il recupero dei capisaldi della tradizione pittorica. Inizia così, con il recupero della fede, la riscoperta dei valori umili e semplici dei compaesani di San Pietro in Volta, borgo dell'isola di Pellestrina, nella Laguna di Venezia, da cui prende il nome. Un «ritorno all'ordine» che non lo porta tuttavia nell'area del Novecento della Sarfatti, per l'indisponibilità di Cagnaccio di aderire a manifesti e movimenti e per l'avversione al fascismo. Ed è alla Biennale del '28, commissaria Margherita Sarfatti, che Cagnaccio presenta Dopo l'orgia, ovviamente respinta in cui mostra i costumi licenziosi del regime. Per conseguenza, e per conservare la propria libertà espressiva, si finge squilibrato e preferisce il saltuario ricovero a San Servolo, il manicomio dei veneziani, per non scontare in carcere le sue dichiarazioni anti-regime.

Per quanto solitario ed estraneo a ogni comunità artistica, Cagnaccio idealmente condivide lo spirito del Realismo magico. Felice Casorati, che apre la strada a Cagnaccio «dalla fase simbolista e Liberty, sotto il segno secessionista di Klimt, al classicismo moderno», è come sottolinea Dario Biagi il più autorevole dei suoi modelli. Il riferimento alle sue opere è evidente nelle nature morte. Anche In tram di Virgilio Guidi, apparso alla Biennale del '24, influenza radicalmente Cagnaccio che mostra attenzione per Dudreville e Oppi, paralleli della Nuova Oggettività tedesca. Insieme a questi riferimenti Cagnaccio guarda Antonio Donghi. È notevole, nella sua pittura rigidamente lineare, una affinità spirituale, per tramando, con i pittori lagunari del Quattrocento: i «più spigolosi» Bartolomeo Vivarini, Carlo Crivelli, Jacopo da Valenza, Andrea da Murano. Palesi sono anche i rimandi (particolarmente nei soggetti religiosi) a Bellini, Mantegna e Dürer. Con queste peculiarità, e il massimo vigore plastico, insieme al visionario Astolfo De Maria, al surreale Bortolo Sacchi e al realista Dino Martens, Cagnaccio rappresenta il corrispettivo lagunare della Nuova Oggettività.

Dario Biagi osserva puntualmente: «De Maria è geneticamente tedesco (sua madre è di Brema) ed è figlio d'arte di un pittore simbolista; Sacchi si è formato all'Accademia di Monaco. Entrambi fin dagli esordi sono inclini a quell'onirismo, parallelo o derivato dal realismo magico che assumerà un rilievo autonomo negli anni Quaranta, attraendo pure l'ultimo Cagnaccio. Eppure c'è in Cagnaccio una sostanziale distanza dai tedeschi: un sentimento d'adesione, quando non di dichiarata appartenenza all'umanità raffigurata, che lo rende partecipe e compassionevole. Nel suo sguardo non vi è la volontà di deformare, di mettere in caricatura. I suoi soggetti d'elezione (anche se non mancano i ritratti di alto borghesi) sono il popolo, i pescatori della sua Pellestrina, gli ultimi, i diseredati. Né si avverte in lui l'attrazione per il morboso e il malato, caratteristica del tedesco Christian Schad. Cagnaccio è il più oggettivo dei realisti magici e, quando è mosso da simpatia-empatia verso i suoi modelli, riesce a restituirli, ancorché congelati in un'atmosfera irreale con qualche tratto di freschezza e spontaneità».

In alcuni dipinti che raffigurano pensierose donne allo specchio, dai volti malinconici e dagli sguardi assenti Cagnaccio indica una dimensione interiore. Nella rappresentazione dell'infanzia il suo realismo può talvolta apparire impietoso. Dal ritratto di Liliana fino ai neonati, bambolotti disarticolati nei loro lettini d'ospedale. La compassione e la partecipazione al dolore dei suoi simili si rispecchia nei suoi soggetti, in coincidenza con la malattia, un'ulcera che degenererà in neoplasia. Dimenticati i nudi peccaminosi dell'orgia, ora dominano scene di vita domestica e popolare. Anche Hitler, che avrebbe condannato i dipinti della Nuova Oggettività come arte degenerata, apprezza un dipinto di Cagnaccio, Il randagio, e chiede di acquistarlo alla Biennale del '34. Nel 1936 L'Osservatore romano apprezza «il suo passato risanato, i suoi intendimenti nuovi, il suo atto di fede nel Dio onnipotente». Un fervore religioso, quello di Cagnaccio, che si concreta in opere della piena maturità, come Rosario. Una famiglia in preghiera davanti al mare. L'anziana madre e nonna che inclina la sedia come un inginocchiatoio secondo il costume antico. Con il rosario la donna conta le preghiere che recita silenziosamente nel suo cuore, come le figlie e le nipoti. Il momento della preghiera è statico ed estatico come nell'Annunciata risoluta di Antonello.

Ma nel contrasto degli occhi rivolti al cielo delle più giovani e lo sguardo perduto verso il basso della grande madre chiusa nell'abito nero del lutto, c'è la dimensione inconsolabile della morte, la rassegnazione, la delusione di chi ha perduto il marito e, ora, forse il figlio.

Il rosario accade davanti a quel mare che forse non restituirà, o restituirà morti, il marito e i figli marinai, così come si vede nel tragico seguito di questo dipinto impaginato davanti al mare, con i dolenti, come un compianto: I naufraghi.

Una grande opera epica e corale. Rosario resta invece un dipinto intenso e intimista che non esibisce la morte ma la fa presagire nella concentrazione della preghiera tra disperazione e speranza.

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