Prima regola: via sangue e pallottole Così i militari censurano i conflitti

La foto della salma avvolta nel telo mimetico dell'alpino che non va pubblicata, il tentativo di censurare il racconto del medico di prima linea che parla troppo di sangue, la dura battaglia dei ponti a Nassirya, derubricata ad azione di polizia, oppure il divieto di salire sugli aerei militari diretti in teatri difficili. Questi sono solo alcuni esempi, vissuti in prima persona, di come nelle missioni più ardue all'estero, costretti da ordini politici, o temendo la propria ombra, i militari hanno indorato la pillola o limitato il lavoro dei giornalisti di guerra.
Il Sitrep, ovvero la comunicazione immediata dai teatri operativi, sulla morte dell'alpino Matteo Miotto, il giorno di Capodanno, parlava, fin dalle prime ore di attacco degli insorti, colpo mortale di un cecchino e richiesta di appoggio aereo, che ha fatto fuori un po' di talebani. Il Sitrep arriva anche al gabinetto del ministro della Difesa, ma la versione scelta nel primo comunicato ufficiale, spedito alla stampa, ometteva lo scontro e tutto il resto parlando solo di un tiro isolato, che appariva quasi fortuito e casuale. Il ministro Ignazio La Russa si è incavolato sostenendo di aver saputo solo dopo della battaglia.
Dal 1982 ho vissuto quasi tutte le missioni all'estero dei militari italiani, dallo sbarco a Beirut fino a oggi. Nel campo della comunicazione c'è stata una rivoluzione copernicana, ma parecchio va ancora fatto.
Per un servizio televisivo che sto realizzando, autorizzato dal ministro in persona, mi hanno dato video e foto dei militari italiani feriti, ma non quelle dove si vede il sangue. Come se un soldato colpito non ne perdesse una goccia. Il periodo più nero è stato quello del governo Prodi, dove la guerra in Afghanistan semplicemente non esisteva o i militari portavano solo caramelle ai bambini. A ridosso delle elezioni in Italia del 2008, per raggiungere la base di Surobi, ho dovuto farmela a piedi per chilometri e presentarmi all'ingresso, perché all'ultimo minuto da Roma volevano impedirmelo. In quell'occasione un tenente medico e un sergente infermiere mi raccontarono davanti a una telecamera come avevano salvato alcuni soldati afghani, che perdevano sangue da tutte le parti. Un generale degli alpini a Kabul fece di tutto per eliminare i riferimenti al sangue e le parti più cruente della battaglia.
Anche l'ex ministro della Difesa, Antonio Martino, non scherzava, soprattutto sull'Irak. Quando i soldati italiani sparavano centomila colpi, durante le battaglie dei ponti a Nassiryah, in combattimenti sanguinosi con i miliziani sciiti, che hanno perso oltre 100 uomini, a Porta a Porta un altro ministro le bollava come «operazione di polizia». E in Afghanistan, pur con timide aperture, la Difesa interveniva per non far pubblicare la foto di un alpino, morto in un incidente, ma durante una missione per garantire le prime elezioni presidenziali. Nonostante il corpo fosse su una barella portata a braccia dai suoi commilitoni e completamente avvolto da un telo mimetico.
Poi, il governo Prodi cancellò la possibilità per i giornalisti di raggiungere i teatri operativi a bordo dei voli militari, rendendo il loro viaggio più arduo e rischioso.
La Russa ha obiettivamente «sdoganato» tanti X file, come i corpi speciali della Task force 45 e la stessa missione in Afghanistan. Il corto circuito fra militari e politici, però, è sempre in agguato, perché bisogna ancora superare definitivamente il guado legato all'ambiguità delle missioni di pace, dove si è costretti, sempre più spesso, a fare la guerra. L'unica soluzione è permettere ai giornalisti, che conoscono veramente la vita di prima linea, di seguire le nostre truppe anche sotto il fuoco.

Per raccontare senza filtri le storie di valore, come la morte del caporal maggiore Miotto. Lo dobbiamo ai circa diecimila soldati impegnati in missioni all'estero e all'opinione pubblica, sia pro che contro le «guerre» di pace degli italiani.
www.faustobiloslavo.eu

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