Roberto D’Agostino. E adesso?
«Eh. Adesso son morto. Francesco Cossiga era tutto per me. Un padre, una guida spirituale. E lo dico fuori dalla retorica».
Fuori dalla retorica e dentro all’irriverenza, era una fonte preziosa per Dagospia.
«Fonteee?? Lui era Dagospia!».
Ti dava le notizie.
«Mi dettava i pezzi. E faceva l’aiutante».
Il presidente emerito.
«Se chiami tu per verificare una notizia o se chiama Cossiga è diverso».
«Pronto sono Cossiga», sì, fa un certo effetto.
«Gli facevo l’elenco delle domande, dalle mosse di Ricucci col Corsera all’assegnazione dei ministeri. Lui chiamava, chiedeva, mi riferiva. E io facevo gli scoop»
Correva l’anno Duemila, Dagospia te l’eri appena inventato.
«Lui lo leggeva divertito. Fu Barbara Palombelli a portarmi a casa sua. Mi accompagnò nel campo misterioso della finanza».
Misterioso e minato.
«Mi aprì gli occhi sul fatto che ormai l’economia aveva preso il sopravvento sulla politica. Mi fece capire che il potere non è quello visibile, ma quello che sta sotto».
O magari sopra.
«Esatto. Quelli che vedi al Tg delle 20 sono solo i burattini, il potere non ce l’ha chi dirige la banca o guida la Rai, ma chi lo ha messo lì».
Tu iniziasti a parlare dei burattinai.
«Erano i tempi della guerra ai vertici di Mediobanca, Cossiga si batté molto per Vincenzo Maranghi, perdendo. Mi chiamava al mattino e mi dettava articoli su Mediobanca, Banca Intesa, Unicredit, io a volte nemmeno riuscivo a capirli».
Ma perché scelse te?
«Pare strano a vedermi, con le mani macchiate di anelli, vero?».
Diciamo che il suo stile sempre impeccabile non si accorda granché con il tuo che è, come dire, kitsch?
«Il nostro feeling nacque per una vicinanza culturale».
Non avevi paura a pubblicare cose di cui non capivi un’acca?
«Gli dissi: “Non ho le spalle abbastanza larghe per fare certi attacchi”».
Risposta?
«“Sanno benissimo che devono cercare me”».
E come lo sapevano?
«Il suo stile era la sua firma: pugno sardo in guanto democristiano. Del resto fu lui a cambiare il linguaggio della politica, cambiandone pure la sostanza».
Le famose picconate?
«C’è un prima e un dopo Cossiga. Con lui scomparve il “pastone” in politichese, perché lui colpiva l’avversario dritto in testa. Diede il “la” a un grande cambiamento epocale: il passaggio dalla politica dei partiti e degli ideali, a quella delle facce. Oggi se uno ti è antipatico non lo voti».
Nel 1994 Silvio Berlusconi gli chiese di entrare in politica. Lui rifiutò
«Diceva: “Non è la mia faccia che può rappresentare uno schieramento politico”. Cossiga è stato il grande testimone della morte della politica e del passaggio ai partiti come sono oggi, comitati d’affari comandati da entità economiche, cosa che lui considerava esecrabile».
Ricapitolando: uccise a picconate la politica, per poi rimpiangerla. Non è un paradosso?
«No, perché gli ideali erano già in soffitta, il sistema marcio. Il cambiamento fu tale che solo grazie a lui, un ex democristiano, Massimo D’Alema, un ex comunista, divenne premier».
C’è un doppio Cossiga: l’uomo di Stato che ha affrontato momenti bui come l’omicidio di Aldo Moro e l’amante del gossip.
«No, c’è un solo Cossiga. Quello che sapeva benissimo cosa voleva e come raggiungerlo, e che in Dago aveva trovato un veicolo non per fare gossip, ma per comunicare quello che pensava, soprattutto sui Servizi segreti».
Cossiga e le donne?
«Era pazzo per le donne, gli piaceva averle intorno. Finito il matrimonio con Giuseppa, però, non ha più avuto una compagna».
Tutto qui?
«Ho avuto un grande rapporto con lui proprio perché non ho mai detto una parola in più, se mai due in meno. Non si scherza coi sardi».
Lo chiamavi Gattosardo. Perché?
«Per l’assonanza col Gattopardo, il romanzo di Tomasi di Lampedusa.
Cossiga gattone.
«Affettuosissimo. E furbissimo. Infatti sai cosa? Io credo che abbia deciso lui di lasciarci. Soffriva di depressione, si sa. Credo che questa volta si fosse stancato».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.