Rifondazione sulle barricate: la sinistra insidia i bertinottiani

Documento sui nuovi assetti interni passa di misura e il leader Giordano strizza l’occhio all’ala estremista

Luca Telese

da Roma

Sì, il mal di pancia c’è, e non lo nega nessuno. Prendete per esempio le parole di Ramon Mantovani, l’uomo designato da Rifondazione per rappresentare il partito al tavolo tecnico dell’Unione che si occupa di politica estera. È lui a chiarire che anche la maggioranza bertinottiana non intende farsi tarpare le ali da un diktat di Romano Prodi: «Non escludo che se il governo propone di aumentare le truppe noi voteremo contro. Ma... una mozione ci dà la possibilità di poter aprire una discussione».
Insomma, anche nel comitato politico di ieri, quello che aveva il compito delicatissimo di eleggere la nuova segreteria e chiudere la transizione fra Fausto Bertinotti e Franco Giordano, sono ancora una volta i destini delle truppe italiane il terreno su cui si sono misurati i rapporti di forza interni, e su cui si sono annunciati i punti di frizione con l’esterno. E il nodo dei nodi è sempre e di nuovo quello: la missione militare in Afghanistan, quella su cui tutta Rifondazione è entrata in fibrillazione da almeno due settimane. Dopo la sorpresa e il disappunto per le parole di Arturo Parisi e Massimo D’Alema che chiedevano di autorizzare l’invio di più truppe, e dopo le richieste della Nato, che auspicavano dall’Italia l’invio di nuove truppe e di caccia, la maggioranza bertinottiana (senza più Bertinotti) ha provato a quadrare i ranghi e a serrare le fila. A incalzarla c’erano le due minoranze, quella trotskista e quella grassiana, unite, anche questa volta, nella critica alla rosa di nomi proposti dalla maggioranza per la segreteria, e allettate dall’idea di far passare un documento che vincolasse il partito nella trattativa con il resto dell’Unione. La mozione pacifista «intransigente» sull’Afghanistan è stata bocciata, senza che ci fossero passaggi di voti tra i bertinottiani e i loro contestatori. Ma subito dopo, sull’elezione della nuova segreteria, si è scaricato il malumore che attraversa anche alcuni settori della maggioranza. Dopo un intervento durissimo dell’eurodeputato Luigi Vinci (ex Dp, leader di una delle anime operaiste del partito) la proposta è stata approvata con soli 98 voti a favore, 73 contrari e 8 astenuti. Nell’organismo sono entrati giovani promesse come Michele De Palma (leader dei giovani), l’ex deputato Walter De Cesaris (che sarà coordinatore), la responsabile immigrazione Roberta Fantozzi e il deputato-sindacalista Maurizio Zipponi. Quel voto risicato è un segnale che dimostra come il consenso per le new entry sia stato di poco sopra al 50%. Non solo. Durante la riunione c’è stato un piccolo scambio di fendenti anche tra due fra i nomi più rappresentativi della delegazione di governo: il sottosegretario Alfonso Gianni (ex braccio destro di Bertinotti, uomo di consensi trasversali) e il ministro Paolo Ferrero, divisi sulla valutazione della manovra economica. Gianni sostiene che non si può aumentare la pressione fiscale, Ferrero che la cosa importante è capire chi colpisce, il segnale che si dà ai ceti più deboli. Non solo una divisione di strategia: tanti piccoli scricchiolii che segnalano i malumori palpabili, il bisogno di poter dire all’elettorato che Rifondazione pesa e non subisce. È vero che la minoranza non ha «sfondato», come sperava, sull’Afghanistan, ma è anche vero che l’intervento di Salvatore Cannavò - deputato trotskista - è stato ascoltatissimo. «Hanno detto che se passava la nostra proposta avremmo avuto le mani legate e saremmo stati costretti allo strappo con Prodi - commentava all’uscita l’ex giornalista di Liberazione -, non è assolutamente vero: sarebbero stati più forti. Adesso il rischio è che siano costretti a mandar giù richieste indigeste, perché qualcuno pensa che Rifondazione sia disposta a trattare sulla guerra». Altrettanto netto il leader di «Essere comunisti» Claudio Grassi (che fra l’altro è senatore): «Dobbiamo ribadire che quella missione così com’è, e a maggior ragione se prevede un aumento del contingente, noi non la votiamo - aggiunge -. La questione qui non è la tenuta del governo Prodi, ma che le missioni di guerra non si votano altrimenti si rompe con il movimento pacifista».
Insomma, tanti segnali a cui Franco Giordano ha dovuto rispondere alzando il tiro. «Rivendico anch’io il diritto di essere preoccupato per la nostra presenza nel governo e ho avvertito sui rischi di una tolda di comando riformista, ma vedo anche l’atonìa delle forze del Partito democratico, il loro istinto allo stallo con la coazione a ripetere vecchie modalità». E poi, sulla politica economica: «Mi pare infelice e non condivisibile la proposta di Padoa-Schioppa di moderazione salariale», osserva il segretario.

«Quanto all'intervento sul cuneo fiscale - aggiunge - ragioniamo se debba essere selettivo o generalizzato, ma il ricavato deve avvantaggiare i lavoratori». Sì, per ora Giordano tiene: ma il partito è come in apnea, sapendo che il suo futuro è appeso a quella missione.

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