Dal cortile di casa al teatro del mondo il passo è breve. Cominci condividendo lo stesso pallone, gli stessi muri sbeccati, le stesse urla della mamma. Diventi grande nella stessa città, nello stesso campionato, nello stesso Paese. Ti incontri di nuovo, ogni anno, ti riconosci, ti studi ogni volta. E poi all'improvviso non giochi più allo stesso gioco, non giochi per la stessa, solita posta. Ti svegli un giorno e quella partita che è stata un'amichevole, una giornata di campionato tra trenta altre giornate, un turno di coppa nazionale, improvvisamente è diventata una finale europea.
Devono sentirsi così Sporting Braga e Porto, che stasera si affrontano nella finale di Europa League. Due portoghesi a Dublino, sembra il titolo di un romanzo. Malinconico come solo possono essere i romanzi fioriti in Paesi dove piove spesso e la musica piange invece di risuonare. Un fado infinito e spossante, questa stagione europea, con tre squadre dell'estremo ovest europeo giunte in semifinale e due approdate all'ultima esibizione sul palcoscenico d'erba del calcio continentale.
Vista da fuori, questa partita pare una sfida a calcio balilla: omini vestiti di blu quelli del Porto, omini vestiti di rosso quelli del Braga. I primi un po' più riconoscibili: ci gioca uno che ricorda l'Ottavo re di Roma, Falcao; e pure un altro che si fa chiamare come un fumetto, Hulk; li allena un tizio che somiglia a un attore di fiction e parla come quell'attore di polemiche suo connazionale che risponde al nome di Special One. I rossi, invece, sono scesi con la piena. Hanno uno stadio assurdo, incastrato tra le rocce delle montagne che fanno da curve, un anfiteatro naturale dove i gladiatori moderni masticano catenaccio e ripartenze.
Eppure blu e rossi sono vicini di casa in un Paese che è solo l'angolo annacquato della vecchia Europa. Oporto e Braga, qualche decina di km di distanza. Invece si gioca nell'Irlanda. Un viaggio insensato, dal cortile al mondo. Sono i derby di coppa, quel ritrovarsi d'un botto a fare cose normali con conseguenze speciali. Come gareggiare per l'Oscar solo perché versi bene il caffè la mattina. Come correre per il campionato di Formula Uno solo perché vai da casa all'ufficio ogni giorno. L'amicizia, la parentela, l'abitudine: tutto ingigantito, tutto unico.
Porto-Braga non è ovviamente la prima finale europea «fatta in casa». L'ultima fu nel 2008, a Mosca, dove Chelsea e Manchester United si giocarono, dopo la Premiership, anche la Champions League. Nella maggiore competizione continentale, il primo caso fu nel Duemila, con il derby spagnolo Real Madrid-Valencia (3-0), ma il precedente più caro agli italiani è la finale del 2003 all'Old Trafford, dove il rigore finale di Shevchenko decise Milan-Juventus.
Ovviamente molto più semplice è sempre stato il «derby» nella Coppa delle Fiere e nella Coppa Uefa, dato che fino al 1992-93 alla Coppa dei Campioni si iscrivevano solo i vincitori dei campionati. Primo caso in assoluto, la finale di Coppa delle Fiere del '61/'62, tra Valencia e Barcellona. Anni Sessanta dominati dal calcio iberico, con altre due finali: Saragozza-Valencia e Barcellona-Saragozza. Tutta spagnola anche l'ultima finale «patriottica» di Europa League: quella del 2007 vinta dal Siviglia sull'Espanyol. Gli anni Settanta erano invece stati favorevoli in Coppa Uefa agli inglesi (Wolverhampton-Tottenham nel 1972) e ai tedeschi (Moenchengladbach-Eintracht Francoforte nel '79/'80).
Il resto è storia degli anni Novanta, quando le finali «made in Italy» erano la norma: Juve-Fiorentina nel 1990, Inter-Roma nel 1991, Parma-Juventus nel 1995 e - infine - il 3-0 dell'Inter di Ronaldo sulla Lazio nel 1998 al Parco dei Principi di Parigi.
Insomma, cambiano i cortili da cui si parte, non l'emozione di trovarsi davanti alle tv europee mentre dall'altra parte c'è chi con te ha giocato decine di volte, proprio dietro casa.
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