Rimettiamoci una toppa

di Margherita TizziLa chiamano customizzazione, in italiano personalizzazione. Si tratta di quella mania, lanciata dalle passerelle della primavera estate 2016, di ricoprire di toppe, con faccine e scritte cartoon, vestiti stampati, bomber, snearkers, borse, giacche e pantaloni. Una mania che ha fatto la fortuna di molti siti online dove viene venduta ogni sorta di pezza, perché l'idea è semplice: bastano ago e filo o un ferro - se le toppe sono termoadesive per renderci unici e alternativi. Insomma, il motto è uno solo: mettiamoci una pezza. Soprattutto se si tratta di jeans. Farà ancora più figo, infatti, se ricopriremo il vecchio guardaroba dei cercatori d'oro californiani con qualche tratto distintivo. Solo così saremo cool al punto giusto, un po' come Garibaldi durante lo sbarco dei Mille, alla moda con un bel blue-jeans (bleu de Genes, blu di Genova, ndr). Nel nostro caso, personalizzato.Riavvolgiamo il nastro: per essere alla moda dovremmo davvero ricoprirci di toppe? Di quelle stesse toppe che odiavamo da bambini perché, se si bucava il grembiulino, ci facevano sembrare «di seconda mano»? Ebbene sì, trasandato è chic, non c'è niente da fare. O qualcosa si può fare. A dicembre il professor Donato Selleri, preside del liceo scientifico Roiti di Ferrara, aveva già mosso guerra ai jeans sbrindellati. «Non bisogna essere condizionati dalle tendenze. Se uno studente fosse persuasivo e mi dicesse che porta i pantaloni laceri perché così manifesta il suo essere, lo ascolterei volentieri disse Selleri a La Nuova Ferrara -. Il problema è che, scherzando, ho chiesto a una ragazza di farmi trenta pagine sull'estetica del jeans sbrindellato. Lei mi ha risposto: ma preside, è di moda». In una società calamitata dall'ostentazione è importante ricordare che l'eleganza è il lusso della semplicità, più che la semplicità del lusso. «L'uomo che vede nella moda solo la moda è sciocco. La vita elegante non esclude il pensiero o la scienza, ma li consacra», scriveva Honoré de Balzac nel Trattato della vita elegante, scioccato dalla cattiveria del gusto della Restaurazione. Forse è questa la chiave: in un periodo storico dove si fa fatica a sperare in un futuro sereno e pacifico, si mira all'effetto, al vestire in modo chiassoso. Alla barba lunga da lumberjack (il taglialegna americano), al jeans fatto a brandelli, alle pezze customizzate. Ma gli sfarzi, troppo spesso, risultano volgari e la moda daltonica, anche se estremamente democratica. Allora proviamo, ancora una volta, a guardare indietro, agli album di famiglia degli anni '50 quando i sogni e le speranze di un'Italia, che si stava lasciando alle spalle lo strascino della Seconda Guerra Mondiale, erano tradotti in una classe senza eguali, raffinata, a modo. In quel periodo è ambientata la serie televisiva Il Paradiso delle Signore, ispirata all'omonimo romanzo di Emile Zola.

Al Paradiso, un grande magazzino dove il bello è alla portata di tutti, fra vestiti raffinati esposti con gusto e oggetti di design, persino le commesse sono chiamate Veneri. Veneri che, con la silhouette Corolle scolpita da Christian Dior, mostrano una femminilità consapevole, ma meno esibita e più personale, fluida e inafferrabile. Altro che pezze

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