Nel giro di pochi giorni, il Fondo monetario internazionale e lUe hanno alzato le previsioni di crescita delleconomia italiana nel 2007 che potrebbe confermare il 2% raggiunto nel 2006, un numero desaparecido da oltre un lustro in Italia e che avremmo tutti un gran piacere di riabbracciare. Il fatto è che sulla scia di tali aggiornamenti e sulla ripresa delle esportazioni nel 2006, è scattata in Italia la consueta corsa alleuforia ed allauto-celebrazione per la migliorata prospettiva economica; ed è un male, perché quando lorchestra suona - direbbe il maestro Riccardo Muti - prevale il trasporto dei sentimenti, non il realismo della ragione. Ragioniamo dunque.
Il Fmi ha alzato dall1,4% all1,5% la stima di crescita del Pil ma ha continuato a sostenere che lItalia è affetta da un malessere di lungo periodo che ci fa perdere competitività ininterrottamente da 10 anni a causa di troppa regolamentazione e protezionismo, della eccessiva lentezza dei tempi della giustizia, dellesagerato carico fiscale su imprese e lavoratori. Anche lUe ha alzato dall1,7% al 2% le prospettive di crescita per il 2007 ma, come il Fmi, ha avvertito lItalia che la volatilità dei prezzi del petrolio e dei cambi costituiscono un rischio forte ed il calo di fiducia delle imprese e dei cittadini in gennaio già lo dimostra. Infine la Banca centrale europea: anchessa ha manifestato dubbi sulla crescita, per via delle incertezze sullefficacia delle misure di contenimento del disavanzo pubblico e ha esplicitamente affermato che, senza ulteriori interventi di risanamento, lItalia rischia addirittura di fallire gli impegni di contenimento del disavanzo sotto al 3% del Pil.
Come si vede, tre analisi che concordano tutte su un unico dubbio: che i provvedimenti di risanamento della finanza pubblica e per il rilancio della concorrenza non siano pienamente capaci di trasformare la crescita attualmente in atto, da congiunturale (cioè passeggera, dovuta ai commerci internazionali e dagli andamenti positivi degli altri Paesi), a strutturale (cioè duratura e generata da una migliorata competitività del Paese e da una autonoma capacità di sviluppo).
Sicché verrebbe da chiedersi come è possibile che gli organismi internazionali siano da un lato positivi ed alzino le prospettive di crescita e dallaltro negativi, confermando tutte le loro preoccupazioni.
La risposta sta nei dati sul commercio estero dellintero 2006 appena comunicati dallIstat. Nellanno appena concluso, le imprese italiane sono tornate ad esportare di più grazie al vento della ripresa dei commerci internazionali e a qualche ristrutturazione aziendale andata a buon fine. Ed è una buona notizia. Ma il guaio è che il Paese continua ad esportare prodotti dove laffollamento della concorrenza internazionale è più forte ed il valore aggiunto più basso (mobili, tessile, alimentazione, scarpe) ma soprattutto che, quando leconomia mondiale ed europea marciano, le importazioni italiane crescono (+12,3% nel 2006) molto più delle esportazioni (+8,8%), con la conseguenza che il deficit commerciale esplode (nel 2006 più che raddoppiato da 9,3 a 21,1 miliardi di euro) e il made in Italy continua a perdere quote sui commerci mondiali. Si conferma cioè linesorabile persistenza del cappio attorno al collo delleconomia italiana: uneconomia esportatrice di trasformazione, che ogni qual volta riesce ad agganciare la crescita internazionale, come negli ultimi 12 mesi, viene «strozzata» dalle stesse importazioni che servono per esportare, e da un disavanzo che toglie lossigeno alla stessa crescita. Gli economisti si affannano da decenni ad indicare la strada per eludere questo vincolo esterno. Occorrerebbe accrescere la competitività interna, contenere la spesa pubblica entro tassi di aumento non superiori al Pil, aumentare lefficienza interna; occorrerebbe avere centrali nucleari in funzione che producono energia a basso costo in luogo del petrolio da importare; e occorrerebbe nel frattempo compensare il deficit delle importazioni di petrolio con super surplus delle altre esportazioni.
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