Risparmiateci la sceneggiata

Oreste Scalzone, libero ormai di tornare in Italia, annuncia che sul patrio suol condurrà «nelle condizioni nuove una vecchia battaglia». Sessantenne ma non pentito né rinsavito, il teorizzatore della «conflittualità permanente in fabbrica» è atteso con trepida ansia dalla galassia dei disobbedienti: o degli obbedienti d’oggi che disobbedienti furono ieri, e sentono cocente nostalgia per le prodezze d’antan. Il riapprodo in porto amico di questo sovversivo che, condannato a una dura pena, non ha mai conosciuto il carcere, avviene con tempismo perfetto. Ricorrono trent’anni da quel ’77 che ebbe lo Scalzone tra i suoi protagonisti, ed è tutto un amarcord sentimentale e narcisistico di quanti parteciparono con slancio - e con lanci, di bottiglie molotov e di pietre - a quella stagione cupa. L’orgoglio di chi può dire «io c’ero» percorre il memorialismo settantasettino quand’anche provenga da chi ha rinnegato i dogmi dell’estremismo e optato per i consigli: possibilmente d’amministrazione.
Ma sì, l’aria che tira è favorevole al figliol prodigo, la decisione della Corte d’Assise di Milano - adottata con assoluta osservanza della legge, intendiamoci - si è adeguata all’atmosfera del Paese. Il noto pensatore Francesco Caruso, deputato di Rifondazione comunista, vorrebbe «invitare Oreste nelle sale del Parlamento per discutere e confrontarsi». Scalzone a Montecitorio? Può sembrare una provocazione, ma visto che a Montecitorio c’è Caruso non ci trovo molto di strano.
Può così sembrare che le vicende dell’infausto ’77 scadano nella sceneggiata napoletana. Ma furono ben altra cosa. Furono tragedia, agguati, sangue, la P38 sguainata per abbattere innocenti; furono predicazione dissennata e fanatica di talebani della sinistra che non arretravano davanti a nulla e che credevano di poter legittimare ogni efferatezza con la loro dialettica stralunata; furono in alcune circostanze se non l’abdicazione di sicuro la rassegnazione dello Stato. Dobbiamo indignarci per la benevolenza della giustizia nei confronti di questo irriducibile della sovversione? Forse sì. Ma sarebbe un esercizio sterile e forse, tutto sommato, non imparziale nei confronti di Scalzone. Tanti altri che come lui militarono nel partito armato, e che sono stati ritenuti colpevoli di uccisioni spietate, sono in giro per l’Italia, scrivono libri, partecipano a convegni, concedono interviste. A volte ricevono incarichi pubblici. Hanno notorietà internazionale. Toni Negri, che dell’età settantasettina fu il peggiore profeta, viene addirittura additato come modello di intelligenza politica dal caudillo venezuelano Hugo Chavez.
Capisco lo sdegno di Isabella Bertolini, parlamentare di Forza Italia, contro un’ipotesi di amnistia per i «compagni che sbagliavano», ma si rassegni: nella sostanza l’amnistia è già avvenuta, il tenere in galera quei pochi che ancora ci sono somiglia a questo punto all’accanimento. Capisco egualmente Giorgia Meloni, esponente di Alleanza nazionale, che propone di coinvolgere nel dibattito sugli anni di piombo i parenti delle vittime. Ma personalmente credo che un ennesimo torneo giuridico-politico sull’opportunità o non opportunità d’avere indulgenza per chi predicò l’insurrezione armata serva a poco.

Basterebbe, a mio avviso, che attorno a questi reduci d’una fase buia della vita nazionale - una fase che li vide ideologicamente schierati dalla parte degli assassini - vi fosse meno comprensione; e che non arrivassero, perfino dai Palazzi dello Stato, frasi benevole per i nemici dello Stato. Sono liberi, facciamocene una ragione. Ma almeno abbiano un po’ di discrezione, non si atteggino a vittime, a eroi, a maestri.

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