Risparmio gestito, altre nozze in vista

Angelo Allegri

nostro inviato a Praga

Di Putnam non vuole parlare. Ma Dario Frigerio, amministratore delegato di Pioneer e responsabile della divisione Wealth management di Unicredit, è a Praga per gli European Colloquia, convegno internazionale organizzato dalla stessa Pioneer in un’area di potenziale sviluppo.
Tra i temi il processo di consolidamento in atto nel settore del risparmio gestito. Impossibile dunque per il manager milanese sottrarsi a qualche domanda su strategie e prossime mosse del gruppo.
Solo pochi mesi fa l’acquisizione di Vanderbilt. Se la parola d’ordine del settore è consolidamento, voi siete perfettamente in linea.
«Mi sembra un trend che coinvolge tutto il mondo della finanza. Si susseguono fusioni e acquisizioni che puntano a creare realtà in grado di estendere il loro raggio d’azione anche al di là dei propri confini nazionali. Del resto le società sono ben capitalizzate, il credito è ancora a buon mercato e in Europa la commissione di Bruxelles ha dimostrato di voler lottare contro gli atteggiamenti protezionistici di alcuni governi. Se poi ci si mettono le specificità di un settore come il nostro dove le economie di scala, la qualità del prodotto e del supporto alla vendita sono decisive, il gioco è fatto».
E quindi si tende a crescere...
«Con il limite posto dalla complessità di gestione di un business che è fatto di talenti che vanno lasciati liberi di esprimersi».
E come mai ancora in America?
«Nessun riferimento a vicende in corso. Posso parlare in termini generali del nostro approccio. È evidente che per noi l’obiettivo è quello di raggiungere un buon equilibrio, una buona diversificazione in termini di portafoglio di business e di copertura geografica. Per quanto riguarda il primo punto dobbiamo sforzarci di trovare un bilanciamento tra il business fatto con investitori istituzionali, stabile ma meno redditizio, e quello retail a redditività più elevate ma instabile».
In termini geografici, quali sono le aree a cui guardate?
«Per quanto riguarda Paesi più vicini a noi, dico Russia. Poi ci sono India e Cina. Stiamo seguendo con attenzione quello che accade in Giappone dove secondo me ci sono le potenzialità di una sorta di rivoluzione del risparmio gestito, come nell’Europa degli anni 90. In America ci siamo, ma siamo ancora troppo piccoli e vogliamo crescere».
Venendo all’Italia: il nostro è un mercato dove asset manager e distributori di prodotti finanziari sono quasi sempre la stessa cosa, e cioè una banca. Il governatore di Bankitalia Mario Draghi ha detto che in nome della concorrenza sarebbe bene allentare questo legame. Lei che cosa ne pensa?
«Il problema non è tanto la proprietà quanto la volontà di investire nell’asset management. C’è chi crede nel settore, investe, e punta su ricerca, qualità e buoni prodotti. Chi, invece, lo considera un costo, o un mezzo per portare a casa un po’ di commissioni. Il mercato deve fare la differenza. Come del resto è accaduto in America. Se poi il problema è la governance, ci sono gli strumenti per garantire autonomia e indipendenza».
Anche gli ultimi dati confermano l’enorme deflusso di fondi italiani a malapena compensato dai cosiddetti fondi roundtrip, quelli creati all’estero da gestori italiani. Il settore sembra in difficoltà…
«Avevamo un fondamentale vantaggio competitivo, quello di una grande quantità di risparmio. E invece a livello di sistema Paese non siamo stati in grado di creare un quadro istituzionale che consentisse lo sviluppo di una florida industria del risparmio gestito».


Quanto pesa il fisco, che fa cadere l’imposta sul cosiddetto maturato e non sul guadagno effettivamente realizzato?
«È sicuramente uno degli elementi decisivi, che ci impedisce, per esempio, di vendere i fondi italiani all’estero. Altri fattori riguardano la complessità della regolamentazione e la ritardata partenza dei fondi pensione».

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