Il «ritorno all’ordine» in forma di parola

Furono quasi quasi i «Poetae novi» degli anni Ottanta. Ma per quanto assai apprezzati - da tipi illustri come Amelia Rosselli, Andrea Zanzotto, Attilio Bertolucci e Giorgio Caproni - non ebbero l’ingresso trionfale che meritavano nel mondo della industria letteraria (e forse questo resterà col tempo anche un loro grande merito). Via dalle rapide acclamazioni e dagli stili prêt à porter - dopo le turbolenze movimentiste degli «anni di piombo» - un gruppo di giovani tra i venti e i trenta prese a Roma la via umbratile del «ritorno alla parola e al significato», recuperando versi e ritmi della tradizione poetica italiana (pronubi alcuni maestri del primo ’900, in particolare Saba, Penna e Caproni) con un chiaro gusto per la forma densa di sentimento in opposizione dichiarata ai fragori e alle maniere sperimentali dei vari avanguardismi vigenti durante gli anni Settanta. Mito, metro e lingua tornavano così ad assumere un posto di rilievo nella espressione di temi noti (e pur sempre poco conosciuti) come la natura, i luoghi d’elezione, l’amicizia, l’amore, e gli affetti familiari.
Due riviste - Braci e Prato Pagano - nate (e durate brevemente) nella prima metà degli Ottanta furono il nucleo di questo rivisitato «ritorno all’ordine» - dal fondo intimista e crepuscolare - che si avvalse in poesia anche del sodalizio e della sintonia con pittori coetanei a loro volta fuoriusciti dall’avanguardismo artistico (Felice Levini, Giuseppe Salvatori, Luigi Serafini tra gli altri). Più che uno stile definito, o una vera e propria scuola, si trattò di un clima spirituale affine per la condivisa «idea antimoderna» del ritorno a una lingua comprensibile, alla chiarezza comunicativa e al gusto della parola antica. Nomi principali: prima di tutto il fine crepuscolare Beppe Salvia, i «neo-umanisti» Pietro Tripodo e Gabriella Sica, l’elegiaco Claudio Damiani, il narrativo Marco Lodoli, il lirico Gino Scartaghiande, il cartesiano-esistenziale Valerio Magrelli, i «montaliani» Giuliano Goroni e Paolo del Colle (e tra gli altri ancora Giacomo Rech, Giselda Pontesilli, Silvia Bre, Antonella Anedda, Edoardo Albinati, Giovanna Sicari).
Una nutrita antologia di versi (con tanto di biografie, interviste e testi critici) ci permette adesso di rileggere il fiore di quella esperienza poetica che il tempo non ha impolverato: Flavia Giacomozzi, Campo di Battaglia. Poeti a Roma negli anni Ottanta (Castelvecchi, pagg. 340, euro 18). Si tratta per lo più di componimenti che riproducono una atmosfera di spaesato disincanto e segnano il lamento vigoroso di una generazione più sperduta che perduta - quella degli anni Ottanta - alla ricerca di padri letterari e spirituali dopo la caduta delle più facili e brucianti illusioni ideologiche (il «Sessantotto e dintorni»). Al di là delle diverse valutazioni estetiche, nelle prove migliori della «generazione invisibile» si può cogliere fino a qual punto fosse centrata l’esigenza di far sopravvivere la poesia dopo le smanie e maniere nichiliste del secondo ’900.
E come per quella «rifondazione» fosse essenziale riferirsi alla tradizione italiana e classica («pensavamo ai poeti del passato - dice Gabriella Sica - per non rimanere fermi a quella muraglia che ci circondava... perché il futuro potesse riprendere vigore... in un momento in cui sembrava che la modernità avesse cancellato ogni orizzonte»). Per carità dunque non chiamate «post-moderni» - cioè modernisti mascherati - gli autori di Braci e di Prato Pagano, che se n’avrebbero a male («codesti finti infanti e queste ingenue libertine - notava già a suo tempo Franco Fortini - sono invero dei post-diluviani candidi e volpini, maestri in arte di elusione...»).

Così quei giovani poeti che negli anni Ottanta non fecero «scuola» e non tracciarono neppure il profilo univoco di uno stile, sono giunti oggi alla piena maturità superando coerentemente lo scoglio delle mode e i capricci del tempo: secondo l’insegnamento proprio che viene dalla tradizione.

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