Quando ho visto arrivare quei tre soldati ho pensato: è finita. Mi ammazzeranno, lo so, ammazzerannome e tutte le persone che amo». Ruanda, anno zero. Macerie. Fantasmi. Vendette. Loro, i soldati, avevano già ucciso uno dei figli di Deborah, Titus, diciannove anni, il più buono di tutti. Aveva appena preparato la cena, lo trascinarono fuori, nel buio, gli lasciarono solo il tempo di un abbraccio, l'ultimo: «Mamma, sono venuti per uccidermi ». Deborah Nythakabinkita, ha 60 anni, prima del genocidio in Ruanda viveva a Ruhengeri con il marito e gli undici figli. Sono hutu. E hutu sono anche i responsabili del massacro dei tutsi. «Noi eravamo contrari alla pulizia etnica ma quando i tutsi sono diventati governo del paese non potevamo più restare lì».
Fuggono nello Zaire, per due anni vivono in un campo profughi, poi tornano. Dicono che la situazione adesso è cambiata, dicono che non c'è più pericolo. Titus trova lavoro come guardia notturna in un'istituzione cattolica, non ha mai fatto male a nessuno. Ma una sera tre soldati vanno a casa sua con la scusa di un semplice controllo. Ritrovano il suo corpo la mattina dopo. Sono gli stessi uomini che passati due anni bussano di nuovo alla stessa porta: «Uno di loro mi prese per un braccio e mi portò in un'altra stanza - racconta Deborah -. Adesso mi ucciderà, ho pensato. Poi è successo qualcosa di incredibile, qualcosa che non mi sarei mai aspettata».
Il soldato si inginocchia, disarmato: «Mi chiamo Patrick sono l'assassino di tuo figlio, io gli ho sparato in faccia in quel campo di mais. Ma da quel giorno il mio cuore non ha più trovato tregua. Perdonami o condannami: se tu vorrai pagherò con la vita la mia colpa».
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