Roberto Abbado ha preso il volo

Sul palco anche il violoncellista Brunello con uno strumento del Seicento

Elsa Airoldi

Che sia lui? Forse, non si sa, ma l’interessato dice che no, che ama la Scala e vorrebbe potervi dirigere il maggior numero di volte possibile. Altro no. Del resto al tormentone del direttore musicale pare non pensarci più nessuno. E anche se prima o poi qualcuno dovrà arrivare, la Filarmonica va avanti. Come può, come sa, come le capita. Spesso bene.
Intanto la presenza in teatro di Roberto Abbado è una gran bella notizia. Una volta, fino a poco fa, Milano contava faticosamente le volte. La Gioconda del ’97, il sinfonico Auditorium del 2004, il sinfonico RAI in Conservatorio dello stesso anno, il primo Filarmonico Scala nel 2005. Mentre adesso pare non esserci che lui.
Domani alla Scala con Filarmonica e un’occasione benefica (Lega italiana per la lotta contro i tumori). A giorni in teatro con l’impegno non indifferente della Lucia di Lammermoor. In maggio al Piermarini con tre sinfonici della stagione scaligera. Insomma Roberto Abbado ha preso il volo. Anche a Milano, dopo gli importanti impegni sinfonico-operistici di Firenze e Roma.
Gli States, dove s’è fatto le ossa lontano da casa un po’ per scelta e un po’ per il peso del nome che porta, è un primo amore che non si scorda mai. Ma con tanta Europa e adesso anche tanta Italia nel mezzo. Roberto, figlio di, nipote di e di e di, inutile ripeterlo, è un cinquantenne che amiamo molto. Per la serietà, il talento, la qualità della tecnica direttoriale, l’intelligenza delle scelte. La decisione di non sfruttare i vantaggi che certo avrebbero potuto derivargli dalla famiglia di origine (e che famiglia) e la semplicità. Per l’equilibrio delle sue interpretazioni cesellate ma anche robuste e venate da una bella patina di visionarietà.
Domani gli è accanto il violoncellista Mario Brunello. Uno che per certi versi gli somiglia. Perché nonostante la storia che gli abbia messo tra le braccia un Maggini del 1600 e lo abbia consegnato alle orchestre più paludate, ai direttori mito del genere Abbado zio e Riccardo Muti, lo abbia insignito di premi, abbia conferito spessore alle sue imprese con mille iniziative alternative incluse le incursioni in altre discipline, Brunello non ha perso né semplicità né simpatia.
Insomma il fondatore dell’Orchestra d’Archi Italiana, il docente della Chigiana, il più giovane Accademico di Santa Cecilia, il compagno di viaggio di tanti intelletuali (i prossimi, per il trasgressivo progetto mozartiano di Legnago, sono Baricco, Daverio, dall’Ongaro...) non si mette su un piedistallo.
Il programma dei nostri apre con un biglietto da visita frequentato e d’impatto. L’Ouverture dei Vespri Siciliani. Chiude sulla generosità melodico-favolistica sui Tableaux d’une exposition. Le pagine a tema ispirate a Musorgskij dalle tele del pittore Victor Hartman. Un amico scomparso. Sono del 1874, sebbene raggiungano massima notorietà solo nel 1922, quando Ravel orchestra da par suo la parte per piano determinando un singolare mix stilistico che accorpa la vena impetuosa e surreale del russo e il proprio stringato razionalismo.
Al posto d’onore il Concerto op. 129 per cello e orchestra di Schumann. Una pagina scritta a Düsseldorf nel 1850 e presentata postuma a Lipsia dieci anni più tardi.

Il tessuto strumentale appare particolarmente prezioso, come spesso quando il compositore deve tener conto della presenza di un solista. Mentre a tratti, come nel Lento o nella cadenza solistica del Finale, l’orchestra è impegnata nel ruolo di accompagnatore giocato a tutto tondo. I tre movimenti fluiscono l’uno nell’altro senza soluzione di continuità.

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