ROCCO L’architetto dello Stato fascista

Guardasigilli di Mussolini dal 1925 al 1932, firmò il nuovo codice penale

Per la cura di Emilia Campochiaro e con un saggio introduttivo di Giuliano Vassalli, l’Archivio Storico del Senato pubblica, per le edizioni del Mulino, i Discorsi parlamentari di Alfredo Rocco, ministro della Giustizia del regime fascista dal 1925 al 1932. Dopo altri volumi dedicati a senatori eccellenti, che furono per così dire “prestati” dal mondo della cultura al laticlavio, come Carducci, Croce, Gaetano Mosca, Gentile, è ora la volta di una personalità tutta e compiutamente politica, che già si era ampiamente manifestata, come tale, prima della «rivoluzione d’ottobre» del 1922.
Rocco fu infatti veramente «politico in proprio», già negli anni della cattedra universitaria, come titolare di importanti insegnamenti di diritto penale e civile. Anni d’intensa attività intellettuale, nei quali erano già apparse le linee portanti del suo personale ideale di organizzazione economica e politica della società, egualmente antitetico al vecchio Stato liberale e ad ogni ipotesi di democrazia progressiva. E «politico in proprio» Rocco fu anche negli anni della propaganda interventista e della Grande Guerra, nella sua qualità di leader del movimento nazionalista e poi di fondatore della rivista Politica, che nel primissimo dopoguerra poteva contare sulla collaborazione di autori prestigiosi: Croce, Gentile, Volpe, Guido de Ruggiero.
Dal nazionalismo al fascismo, il suo itinerario fu poi diretto, senza deviazioni e senza tentennamenti. Nominato sottosegretario al Tesoro a pochi giorni dalla Marcia su Roma, eletto presidente della Camera nel maggio 1924, Rocco diveniva, nell’anno successivo e per quasi un decennio, guardasigilli del regime. Durante quel periodo si edificava, sotto le sue direttive, l’architettura dello «Stato nuovo» fascista. Le leggi per la difesa dello Stato, che impedivano ogni forma di opposizione organizzata. Quelle sulle facoltà del capo del governo e sulle funzioni dell’esecutivo, che distruggevano la distinzione e il reciproco bilanciamento dei poteri. Il nuovo ordinamento sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro, che demandava la difesa dei lavoratori al solo sindacato fascista. Infine, la riforma della rappresentanza politica, secondo la quale il Gran Consiglio del fascismo diveniva l’unico effettivo centro decisionale dello Stato e per la quale si cancellavano le ultime vestigia del sistema liberale. Quelle che proprio Rocco aveva definito sprezzantemente «i detriti del vecchio mondo politico», che non dovevano sopravvivere alla costruzione della nuova «legalità fascista».
Di fronte a questi dati di fatto incontrovertibili, eccessivi sono i timori di quanti hanno paventato la possibilità di una «defascistizzazione» di Rocco e magari il suo inserimento in quella assai controversa categoria del «fascismo critico», nella quale hanno trovato posto altri notabili del regime: da Bottai a Grandi a Ciano a Federzoni fino a Giuseppe Bastianini. Questa operazione largamente mistificatoria ha davvero poche possibilità di riuscita per Rocco: un fascista integrale, un autentico «intellettuale di Mussolini», al quale lo stesso Duce del fascismo, pur così avaro di riconoscimenti per i suoi più stretti collaboratori, dedicò parole addirittura commosse, ricordando «il compagno necessario senza il quale la mia fatica sarebbe rimasta a metà strada».
Vero e proprio legislatore del fascismo, come Carl Schmitt lo fu per il regime nazionalsocialista, Rocco non fu però l’architetto dello Stato totalitario. E se lo fu, lo fu soltanto per una particolare versione di quel sistema politico, che in Italia fu unicamente «totalitarismo imperfetto», semplice vocazione se non addirittura velleità totalitaria. Lo dimostrano il disinteresse dimostrato da Rocco per ogni tentativo di organico coinvolgimento delle masse nella vita politica, la supremazia mantenuta almeno formalmente allo Stato nei confronti del partito unico, la mancata trasformazione, almeno fino al 1938, della dittatura in regime terrorista, che invece si era pienamente realizzata nella Germania di Hitler e nella Russia di Stalin.
La rivoluzione copernicana attuata da Rocco nel mondo della politica poté così apparire una rivoluzione incompiuta per tutti coloro che, con maggiore determinazione, intendevano istituire anche nel nostro Paese un compiuto modello totalitario. Tale la considerarono Bottai e Ugo Spirito che ritenevano inammissibili la concorrenza di due diverse autorità («il binomio Re-Duce»), in un sistema di potere che pretendeva il dominio assoluto sulla società, senza però essere riuscito a trasformarsi in uno «Stato totalitario, espressione del popolo organizzato». E tale sembrò soprattutto ad un gruppo di intellettuali (Carlo Costamagna, Antonino Pagliaro, Delio Cantimori) che, a partire dalla fine degli anni Trenta, avrebbero guardato con sempre maggiore favore al regime nazista, dove un «unico popolo» era condotto verso i suoi destini da una «sola guida».
Che queste critiche fossero all’origine della brusca estromissione di Rocco dal dicastero della Giustizia, avvenuta durante il rimpasto ministeriale del 1932, è lecito dubitare. L’uomo tuttavia sembrò allora non corrispondere più alla necessità dei tempi. L’opera legislativa di Rocco, al contrario, sopravvisse, dopo la sua morte, avvenuta a soli tre anni di distanza dal suo allontanamento dalla camera del potere.

La prima Repubblica, nata dall’antifascismo e dalla resistenza, continuò a mantenere in vigore il suo codice di procedura penale, che verrà parzialmente modificato solo a partire dai primi anni Settanta e che ancora oggi attende di essere sostituito nella sua interezza da un nuovo ordinamento, il cui progetto è stato posto all’attenzione delle Camere nel 2004.

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