Roma scommette sul mercato ma la qualità abita a Venezia

RomaDurata: otto giorni di proiezioni più uno di premiazione (Cannes e Venezia ne durano 12). Biglietti: settemila venduti in media ogni giorno. Celebrità a vario titolo presenti: Asia Argento, Valeria Bruni Tedeschi, George Clooney, Paolo Coelho, Ethan e Joel Coen, Milos Forman, Richard Gere, Terry Gilliam, Gilles Jacob, Christopher Lee, Helen Mirren, Gabriele Muccino, Meryl Streep, Lech Walesa, attori e registi dei film italiani (il loro nome è legione)...
Cinque settimane dopo la Mostra di Venezia, quattro settimane prima del Torino Film Festival, domani il Festival di Roma avrà finito le proiezioni. E ricominceranno le polemiche sulla sua utilità, oltre a quella di dare lavoro a un po’ di gente, che di per sé è un notevole merito, specie di questi tempi. Di solito si sentiranno parole, parole, parole di chi a Venezia e a Roma, per non dire a Berlino e a Cannes, è andato solo in viaggio di nozze. Considerate invece quanto segue.
Accusato di gigantismo col sindaco Veltroni, accusato di minimalismo col sindaco Alemanno, il Festival di Roma è comunque un miracolo economico-ludico che si è ripetuto un’altra volta e ciò è importante per una città che ha dimenticato tutto del suo grande passato, salvo aggrapparsi al «panem et circenses».
Se è presto per dire se siano tornati i conti economici del Festival di Roma, la sua lotta per la sopravvivenza si può considerare vinta anche quest’anno. La direttrice Piera Detassis si sottrae e ogni paragone con la Mostra di Venezia, specificando che l’iniziativa romana, nata come Festa (non come Festival), «ha diverse finalità e punta soprattutto sul mercato». Ha ragione lei, ma aver ragione non serve quando gli altri vogliono comunque i confronti. Ebbene, nel 2009 la Mostra è stata la migliore della gestione Müller e una delle migliori dal 1997 in poi, ma il ben più breve Festival di Roma lascia, rispetto alla Mostra, spazi ulteriori di libertà di pensiero e di spettacolo. Una libertà anche questa squilibrata a sinistra? Che sia così è la miglior risposta alle accuse all’Italia dalla stampa straniera, imboccata dai rispettivi governi, che per i propri interessi agiscono contro quelli italiani, non solo contro quelli di Berlusconi.
Non tutto all’Auditorium (e nemmeno fuori da qui) è gradevole, interessante o divertente, ma i Festival - si sa - sono una troppo lunga serie di film ideati come atti di penitenza, intervallati da momenti di svago, come ieri Oggi sposi di Luca Lucini, che si risolvono in un’amara riflessione non sul nostro cinema, ma sul nostro popolo. Infatti un film è sempre uno specchio offerto agli spettatori: ha successo se essi ci si riconoscono...
Rispetto ai Festival di Berlino e Cannes e alla Mostra, il Festival di Roma è stato più corto di un quarto. C’è da sperare che gli albergatori del Lido, della Croisette e della Potsdamer Platz imitino il modello romano. Più sono i grossi Festival, più sono i film, insomma più c’è quantità in un momento di modesta qualità generale, più si forma un’inflazione di offerta che inibisce, non stimola, l’interesse della stampa. Si sente sempre più spesso dire: togliete pagine ai Festival ed essi chiuderanno: meno soldi spesi per seguirli, meno spazio dato a temi elitari e i bilanci rifioriranno. Vero o no che la soluzione sia così semplice, è certo che l’ombra del silenzio stampa si allunga sui grossi Festival più che sui grossi terroristi.
Gianni Alemanno, sindaco che non ha voluto, ma ha subìto il Festival, nel convegno di ieri ha detto: «Finora i risultati, sia in termini di immagine che di afflussi, sono nettamente superiori alle passate edizioni», però «mancava una rassegna dedicata al ventennale della caduta del muro di Berlino». E ha aggiunto, per consolarsi: «Però c’è stato il film su Popieluszko». Non è dunque solo la sinistra a voler la politica nei grossi Festival.
Pare che al sindaco di Roma si sia risposto che i film anticomunisti difettino, ma è vero solo nel presente.

Anche trascurando quelli bellici e di spionaggio nell’epoca della Guerra fredda, gliene potremmo citare una trentina, perfino qualcuno girato in Italia, dove se ne sono fatti meno perché un italiano su tre era comunista e due comunisti su tre andavano al cinema. Il fatto è che una retrospettiva seria esige una lunga preparazione. Per farla nel 2010, ci si dovrebbe pensare da dopodomani. Accadrà?

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