La Romania entra in Europa per venire a vivere in Italia

A partire dal primo gennaio diventerà il ventisettesimo membro dell’Ue

Lamerica, ancora una volta, siamo noi. In principio furono gli albanesi. Arrivarono a carrettate. Sui motoscafi dei contrabbandieri e a navi intere, avvinghiati perfino all’asta delle bandiere di certe carrette del mare che facevano spavento a vederle. Negli ultimi anni, l’arrembaggio ha prediletto rotte più meridionali, essenzialmente via Lampedusa. Ora tocca ai romeni.
Cinque anni fa erano già 250mila. Cifra ufficiale, ricavata dalla regolarizzazione introdotta dalla Bossi-Fini. Dunque approssimata per difetto. Poi, nessuno ha più tenuto il conto, mentre il via vai di «turisti» in arrivo da Bucarest e da Timisoara con un biglietto di sola andata ha fatto impallidire il dato aggregato di giapponesi e americani (che avevano anche un biglietto di ritorno, e una vera macchina fotografica al collo). Un milione e mezzo. Forse due milioni, secondo i più realistici calcoli di alcuni esponenti di Identitatea Romaneasca, il neonato partito dei romeni d’Italia e di altre associazioni che li rappresentano. Insomma: tanti.
Siamo la loro terra promessa. E ancora più lo saremo dopo la notte di San Silvestro, quando la Romania, insieme con la Bulgaria, entrerà a vele spiegate, e di diritto, nella Ue. Calma, dice rasserenante il ministro del Lavoro romeno, Gheorghe Barbu, attento a stemperare i timori di una prossima invasione: «Chi ha voluto emigrare l’ha già fatto». Un filo più realista sembra il primo ministro di Bucarest, Calin Popescu Tariceanu, secondo il quale una «lieve migrazione in Italia e in Spagna» ci potrebbe essere.
Lieve? Una migrazione lieve? Solo a Milano, dove già vivono 40mila romeni, se ne aspettano altrettanti. Lo dicono don Gino Rigoldi, che la materia la conosce bene, e lo dicono i rappresentanti delle istituzioni cittadine, in coda davanti alla porta del ministro degli Interni per chiedere aiuto e lumi. Ma anche a Roma le preoccupazioni non mancano. «Io vado in metrò ogni giorno e la metropolitana di Roma parla romeno», ammette Giancarlo Germani, presidente del partito di raccolta citato qui sopra. Chi arriverà? è la domanda che nei Comuni e nelle Questure d’Italia circola a mezza bocca. Gente perbene, il più delle volte. Muratori, badanti, operai disposti a lavorare nei campi e nelle stalle. Ma anche professionisti, tecnici, operai specializzati. Gente spinta dalla speranza di mettere insieme un salario decente e di lasciarsi alle spalle certe tabelle che fanno sognare a occhi aperti gli ex sudditi di Nicolae Ceausescu (un Pil procapite, media Ue, di 23.400 euro contro i 7.800 della Romania e un costo del lavoro di quasi 23 euro l’ora, dato del 2004, contro l’1,79 di Timisoara e dintorni). Verranno da Bucarest, da Brasov, da Sibiu, da Cluj-Napoca e da Oradea, i romeni brava gente. Da Craiova caleranno invece colonne di zingari, e battaglioni di storpi che si ormeggeranno ai semafori chiedendo l’elemosina. Con gli immaginabili riflessi negativi per quel che riguarda il fiorire delle baby gang e la prostituzione minorile.
L’Italia e la Spagna. Sono questi, fra i Paese europei, quelli in cima ai sogni dei romeni con la valigia al piede. C’è la lingua, assai simile alla nostra e allo spagnolo. E c’è una certa affinità culturale. Da quattro anni possono viaggiare con un visto turistico valido tre mesi, a patto che in saccoccia dimostrino di avere qualche centinaio di euro (500, dice la legge) ma se son 200 va bene lo stesso. Una volta entrati, il gioco è fatto. I giochi, comunque, ormai sono fatti. Dal primo gennaio, la Bulgaria e la Romania diventeranno il ventiseiesimo e il ventisettesimo Stato membro dell’Unione europea. Per Sofia e Bucarest è una sorta di ritorno a casa, quella casa europea da cui i due Paesi vennero strappati e separati da quella che per decenni si chiamò la «cortina di ferro». Una transizione che per quanto riguarda la Romania è ancora lontana dall’essersi conclusa. I diciassette anni passati dalla caduta del comunismo alla prossima entrata nella Ue hanno profondamente cambiato la vita dei romeni. Ne hanno cambiato la mentalità, il tenore di vita, le aspettative. Anche se accanto a un Paese che sogna internet, la Nato e le vetrine illuminate di Roma e Madrid ce n’è un altro che arranca nella campagna profonda della Bucovina, dove l’acqua corrente e la luce elettrica sono ancora un sogno, a bordo di un carretto tirato da un cavallo.
Duecentocinquanta euro netti al mesi è il salario medio di un lavoratore romeno. Ma come sempre, questi dati «medi» non dicono nulla delle enormi diseguaglianze osservabili all’interno di una società dove lampi di scandalosa ricchezza si alternano a spaccati di altrettanto scandalosa povertà. Dopo la rovinosa caduta del regime comunista, la corruzione alimentata dalla povertà ma anche dalla brama del guadagno facile è dilagata. Paese intriso di paradossi, se è vero (come ha scritto recentemente la giornalista romena Mihaela Iordache) che la Romania soffre ormai di mancanza di manodopera autoctona, dovuta appunto alla massiccia emigrazione. Ed è costretta ad importare professionisti, tecnici e operai specializzati dalla Turchia, dalla Cina e dalla Moldavia. Gli stranieri immigrati sono disposti a lavorare in Romania per stipendi che i romeni rifiutano sdegnati preferendo le lusinghe dell’avventura romana o madrilena o vivere delle rimesse dei parenti che hanno «svoltato» e parlano con accento meneghino o castigliano.
Dietro l’angolo, i timori che ogni volta hanno accompagnato l’ingresso dei nuovi soci est europei.

Le scorie culturali comuniste, e il conseguente torpore di un’economia sganciata dalla produzione reale; il timore di non farcela, di assistere a una perdita del potere d’acquisto; e quello di essere incalzati da un’inflazione alimentata da stipendi «romeni» e prezzi «europei».

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