Rosy, moralista ingrata che uccide i suoi partiti e scarica i benefattori

Come fece con la Dc durante Tangentopoli, oggi punta a far fuori i vertici del Pd e insediarsi al potere. Sempre in nome delle manette. Fu Andreotti a farla eleggere la prima volta. Ma quando lui venne incriminato per mafia da lei non arrivò alcun aiuto. Con l'inchiesta che tocca Bersani ha apertamente dato il via alla sua scalata al partito

Rosy, moralista ingrata che uccide i suoi partiti e scarica i benefattori

Computi i sessant’anni - in febbraio - Rosy Bindi è passata da single rassegnata e a tratti felice a zitella acida e misantropa. Eccitata dalle inchieste penali sul Pd, Bindi ha indossato i panni dell’eroina senza macchia che punta a prendere le redini del partito e fare strame dei corrotti.
In sostanza, vuole lo scalpo (si fa per dire) di Pier Luigi Bersani quando appena un anno e mezzo fa era stata sua sostenitrice per la segreteria. Ma da tempo ha cambiato idea e si ingegna a rimpiazzarlo. A febbraio fu Gad Lerner - il consigliatore di Romano Prodi - a fare il nome della signorina come premier di un governo di emergenza. Ora è lei che si autocandida a salvatrice del partito braccato dalle toghe. Nei due casi, a muovere le fila sono Prodi, i prodiani, il prodismo di cui Rosy è un tassello.

La colpa attuale di Bersani è di essere amico dell’indagato Filippo Penati e quella di entrambi di essere degli ex diessini. Infatti, ragiona Bindi, il Pd - in cui c’è lei - non è responsabile di ciò che Penati ha fatto quando era Ds. Idem per il senatore Tedesco, indagato dai magistrati pugliesi. Tedesco è del Pd ma, essendo un ex socialista, ragiona sempre Bindi, i pasticci che ha combinato sono frutto della sua tara originaria: il craxismo. In ogni caso, il Pd - di cui è cofondatrice - nulla c’entra col marcio. Fosse per lei, espellerebbe tutti quelli che sono sotto inchiesta, indipendentemente dall’accertamento delle colpe, metterebbe Bersani in naftalina per le sue amicizie a rischio e prenderebbe la testa del partito per consegnarlo a Prodi e ai residui dc di sinistra che sono il vanto d’Italia e cui va data un’altra chance di governarci.

Col passare degli anni, la stella polare di Rosy è sempre più il moralismo. La politica come arte del possibile, con gli uomini che ci stanno, le è estranea. Dipendesse da lei, a governare sarebbe Woodcock. Ora è pronta nel suo Pd, partito di raccolta di vari filoni ideologici, a lasciare per strada ex Pci ed ex Psi - che sono il nocciolo della compagine - per proseguire la strada con un pugno di immacolati. E se, nel corso della cammino altri saranno messi sotto inchiesta - cosa facilissima visto il gossipismo delle procure - abbandonerà pure loro, per arrivare pura e nuda alla meta.
Maria Rosaria, questo il suo nome vero, non è nuova a omicidiare partiti. È lei più di tutti, essendo di carattere forte e fanatico, all’origine della dissoluzione della Dc. Erano gli anni di Mani pulite.

Dopo che i grandi capi furono decimati da Borrelli & co, divenne segretario Mino Martinazzoli, detto cipresso per l’allegria. Non sapendo a che santo votarsi, si mise accanto un’esponente delle terze file e ne fece la musa ispiratrice. Era la signorina Bindi che di fronte alla mattanza giudiziaria, infischiandosene delle colpe reali, gli disse: «Fai piazza pulita degli inquisiti. Meglio pochi ma buoni». Mino le dette retta e in sei mesi la Dc passò dal 25 per cento dei voti al dieci. Poi, di comune accordo, cambiarono il nome Dc in Partito Popolare e quel che restava di mezzo secolo di storia, finì nelle mani del vespillone, il quale procedette a una mesta sepoltura. Occhio, Bersani: la logica «pochi ma buoni» è la stessa che Rosy applica in queste ore al tuo Pd.

L’evoluzione manettara e spaccatutto di Maria Rosaria non era implicita agli esordi. Da ragazzina a Sinalunga, la sua città, era sportivona, scavezzacolla, gran campeggiatrice con gli scout. È tuttora molto libera di parola, non disdegna i vaffa e altri insulti scatologici, ama le osterie, il bere, i cori. Dopo l’assassinio br di Bachelet, di cui era allieva, avvenuto davanti a lei, lasciò l’università per la politica. La pivella debuttò sotto l’ala protettrice del grande Andreotti. Il Divo se la affiancò nelle elezioni europee del 1989 e si presentarono insieme nella circoscrizione Nord-Est. La regione fu tappezzata di cartelloni in cui i due erano appaiati e senza che Rosy dovesse cacciare una lira, poiché ubi maior... e poi allora c’era mamma Dc. La trentottenne andreottiana fu eletta con un numero di voti lusinghiero. La gratitudine per il suo primigenio benefattore fu sempre tiepida. Quattro anni dopo, quando Andreotti fu ingiustamente incriminato dal pm Caselli per mafiosità, Rosaria tacque indifferente. Era ormai incasellata a sinistra e le faceva piacere assistere a un’agonia giudiziaria nell’altro campo. La confermava nell’idea di essere un giglio in un prato di cardi. Tacque egualmente, forse per il dispiacere, quando Giulio fu assolto, dimostrandosi per quello che è: partigiana e ingrata.

Da tre anni è vicepresidente della Camera, degna spalla di Gianfranco Fini nello screditare il

Parlamento. Mesi fa, mentre presiedeva, si mise a urlare con l’opposizione (e accanto al microfono) «P2, P2» per zittire il capogruppo Pdl, Fabrizio Cicchitto. Fece la figura della teppista ed emerse la sua vera identità.

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