Il premio Hemingway, quest’anno alla 27ma edizione, è da sempre libero e avulso da qualsiasi
pressione editoriale o politica. Basta scorrere l’elenco dei
vincitori: si va da Giaime Pintor a Toni Capuozzo, da Milena Gabanelli
a Joaquin Navarro-Valls, da Indro Montanelli a Vittorio Gassman.
Non c’è destra o sinistra che tenga, e gli editori possono brigare
finché vogliono: in genere, all’Hemingway, fa fede soltanto la bravura
dei candidati e l’audience che hanno saputo raccogliere presso il
grande pubblico.
Ed ecco chi vince quest’anno: nella categoria
giornalismo Alessandro Sallusti, direttore del Giornale , per il
giornalismo televisivo Daniela Vergara di Rai2, per la narrativa
Aurelio Picca (scrittore e firma del Giornale ) con Se la fortuna è nostra (Rizzoli), per la saggistica il professor Giovanni Orsina con L’alternativa liberale ( Marsilio).
Premio speciale alla carriera ad Andrea Monti, direttore della Gazzetta dello Sport .
Tuttavia ci sono contestazioni all’orizzonte. Si dice che qualcuno sistia organizzando per boicottare la serata di premiazione del 21
maggio a Lignano Sabbiadoro.
Pure la mattinata di votazione della
giuria, il 9 aprile scorso alla Biblioteca comunale della stessa città,
non è andata tranquilla. C’erano - leggiamo sul verbale della
riunione - il sindaco Silvano Delzotto, la presidente Luisa Ciuni,
il fondatore e segretario Luigi Mattei, più diversi assessori,
giornalisti, scrittori. Tutti presenti in ossequio alla conditio sine qua non
dell’Hemingway: i giurati hanno l’obbligo di trovarsi fisicamente
alle riunioni, non si può votare per lettera o per fax. Vale anche per
i vincitori: devono recarsi alla premiazione. Chi non è presente,viene
“spremiato”, ma sul serio: per dire, è accaduto a Francesco Cossiga.
Il 9 aprile, tra i giurati, mancava solo Paolo Conti del Corriere della Sera .
Ha mandato il suo parere successivamente per lettera, ma come da
regolamento il suo voto è stato cassato. A latere, però, è trapelato
che non era affatto contento delle quaterne di candidati sulle quali i
giurati avrebbero dovuto discutere per eleggere infine il vincitore
di ogni categoria. Aveva comunque la possibilità, sempre da
regolamento, di proporre un candidato proprio.
Hanno stupito molti, invece,
le motivazioni di Andrea Filippi, direttore del Messaggero Veneto ,
nel dimettersi dalla giuria dopo aver votato. «A dirla tutta, ci spiega
Luigi Mattei, Filippi non voleva legare la sua testata, che
appartiene al gruppo editoriale l’ Espresso , a un premio che
quest’anno vede come vincitori parecchie personalità di destra». E così
la sinistra è riuscita a politicizzare pure l’Hemingway. È un vero
peccato per questo premio. Ed è un peccato
anche per la sinistra, che a quanto sembra ha ancora «il tabù della
destra». Collegare tutto ciò con i risultati delle recenti
amministrative non sarebbe a questo punto peregrino: il venticello di
cambiamento, più che altro uno spiffero, che Bersani ha percepito nelle
cabine elettorali del nord è legato a doppio filo all’estremismo e si
sa, l’estremismo non tollera che i premi vengano assegnati
all’avversario, ancorché bravo.
Se le
cose stanno così, la sinistra non ha davanti a sé un futuro di
tolleranza. Si dice che Filippi stesso abbia scagliato accuse notevoli,
per lettera, verso lo stesso Sallusti: «premiandolo rischiamo di
uccidere il giornalismo», avrebbe scritto, esprimendo il suo «totale
dissenso » verso la decisione della giuria (che ha scelto Sallusti tra
Franco Bechis, Massimo Gramellini, Fabrizio Gatti e altri) e
dicendosi convinto che «la faziosità deve avere un limite ». Filippi
non sta dando, però, un buon esempio. Non facciamo tutti lo stesso
mestiere?
E così si profila sotto traccia al Premio Hemingway l’ennesimo ricatto della sinistra alla cultura: o siete dei nostri o non siete. Non importa se Aurelio Picca, in pratica vincitore morale dello Strega di quest’anno (da cui è stato estromesso per maneggi, questa volta sì, editoriali), ha scritto uno dei romanzi più intensi e ben accolti dell’ultimo lustro. Non importa se Giovanni Orsina ha scritto con il suo L’alternativa liberale un eccellente saggio su Giovanni Malagodi, il moderato che pensava che i cattolici avessero fatto male ad allearsi con i socialisti tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Un saggio che, quando “rifiutato” da Il Mulino cattolico- progressista di Prodi, ha subito trovato porte aperte alla Marsilio.Quel che sembra importare, per alcuni, è che il nemico stia zitto. O possibilmente rimanga senza premi.
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