Un «pacemaker» contro il Parkinson

Il caso di Francesca: «Ho ritrovato la normalità». La procedura di Boston Scientific

Gabriele Villa

Guardi le fotografie artistiche di Francesca, ritratta da un professionista degli scatti come Swan Bergman, e finisci alle corde. Si sgretolano le tue convinzioni, la tua supponenza, quando lei, Francesca Cavalli, alle soglie dei suoi primi 50 anni, ti dice che è malata di Parkinson. Glielo hanno diagnosticato nove anni fa ed è stata una staffilata al cuore del suo mondo. Perché quella diagnosi significa l'addio a una vita normale, proprio nella sua preziosa quotidianità. Significa sapere che la malattia ti farà compagnia, inesorabilmente. Fino alla fine. Eppure. Eppure, come risponderebbe oggi Francesca a chi le dicesse di essere malato di Parkinson, «vedrai che un giorno tornerai a sorridere».

E sorride Francesca mentre l'accerchiamo di domande. Sorridono i suoi occhi, sorride la sua voglia di sorridere alla vita. Che le sta regalando un piccolo aggeggio, pochi centimetri di altissima tecnologia, realizzato nei laboratori della Boston Scientific, che due anni dopo quella diagnosi, in un ospedale di Locarno, le hanno inserito sottocute. Tre lettere che riaprono le porte alla vita quasi vera, DBS, l'acronimo di Deep Brain Stimulation, sistema di stimolazione cerebrale profonda.

Un piccolo apparecchio che, quando viene innestato e collegato a due elettrodi, inseriti nel cranio del paziente, spazza via quei chili di farmaci dei quali una persona affetta da Parkinson deve restare in ostaggio senza mai sgarrare. Certo, quando si parla di fare due buchi in testa i brividi corrono lungo la schiena. Annuisce, ma contrattacca in punta di fioretto, il professor Mauro Porta che, al fianco di un altro luminare, il professor Domenico Servello, all'ospedale Galeazzi di Milano (tra gli istituti clinici del gruppo San Donato), ha già inanellato centinaia di interventi, o meglio di «procedure» di DBS su malati di ogni dove.

«Pensate a un pacemaker. Parlarne, ammettere di averlo, è ormai assolutamente comune. Ecco, la DBS è il pacemaker del cervello. Una procedura di questo tipo permette a degli elettrodi, per nulla lesivi e per nulla invasivi, di raggiungere questo piccolo device che, da quel momento in poi, consentirà di regolare il flusso di dopamina di cui il paziente parkinsoniano necessita per controllare e governare i suoi movimenti e le sue reazioni. Solo che al cuore ci arriviamo facilmente attraverso le arterie, mentre l'accesso intracranico necessita di fare due forellini che sono una sciocchezza. Un catetere direzionale, come questo, raggiunge con precisione quel determinato punto e ci consente di regolare dall'esterno con la batteria l'intensità, l'ampiezza e la durata della neuro modulazione, prestabilita dal medico entro un certo range».

Giriamo tra le dita questa minuscola ancora di salvezza: «Stimolatore ricaricabile Gevia e elettrocatetere direzionale Cartesia» della Boston Scientific (da oltre 35 anni, leader nel mondo nella produzione di dispositivi medici per procedure che spaziano dalla aritmologia ed elettrofisiologia, all'endoscopia e all'urologia; 19mila brevetti, 25 milioni di pazienti trattati nel mondo). «In ospedale da noi - sottolinea il professor Porta - facciamo due procedure di DBS alla settimana e l'intervento dura poco più di due ore. Siamo il centro più attivo in Europa: intendiamoci, la DBS non è consigliabile dopo i 70 anni ed è un'opzione da considerare solo tre-quattro anni dopo la malattia quando si ha la certezza di un Parkinson».

E Francesca, dopo la DBS, che cosa ha fatto, come si è sentita? «Ero in uno stato euforico. Fino a pochi giorni prima dell'intervento faticavo ad alzarmi dal letto. Ci mettevo ore a vestirmi e vivevo, si far per dire, con l'incubo di prendere quel determinato farmaco a quel determinato minuto. La prima cosa che ho fatto? Era aprile, ho preso il mio cane e sono andata al mare. Da sola. Non mi pareva vero, la mia vita era tornata a essere vita. A settembre ho deciso di fare un viaggio impegnativo, sono andata in Indonesia da sola. Mi aspettavano degli amici laggiù. Una vacanza indimenticabile».

Perché ha deciso di fare quelle foto che, mostra dopo mostra, stanno facendo parlare di lei, foto quasi da calendario artistico? «Alcune, quelle fatte prima dell'intervento, per

ricordare sempre com'ero ridotta, le altre per riscoprire la mia femminilità e, assieme al blog e al libro che sto preparando, per raccontare il Parkinson senza paura. Perché adesso io esco e vedo il sole. Anche quando non c'è».

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