Da Santoro alla Busi: tutti alla corte di Telekabul

Il conduttore di Annozero e la giornalista verso l'approdo a Raitre: lui come autore di docufiction per la rete, lei tra i mezzibusti del Tg3

Da Santoro alla Busi: 
tutti alla corte di Telekabul

Roma - E se dei poveri (e creativi) sarà il regno dei cieli, sia allora benvenuto anche il ritorno di Telekabul nel regno dell’etere. Imbandito il vitello grasso per Michele, figliuolo prodigo (mica poi tanto), coperto di rose il cammino di Maria Luisa, martire nella guerra contro il «Minzo».

Già: è di questo che ora si parla, in attesa delle firme sotto i contratti milionari, degli addii annunciati e non ufficializzati. Michele Santoro con le sue produzioni «etero-finanziate» dalla Rai, pur di liberarsene; Maria Luisa Busi con la sua crisi di coscienza al Tg1 che non «la rispecchia più» (e il Cdr la spalleggia: «Il direttore rischia di riportare la redazione ai momenti peggiori di divisione e frattura»). Ora che lo specchio s’è rotto, l’incantesimo svanito, che lui torna «bello ciao», lei «non più bella del reame», la ridotta di entrambi sembra naturale e propizia: un ingaggio a RaiTre (per le docu-fiction di lui) e al Tg3 (la conduzione per lei). Ovvero: ciò che in gergo televisivo fu a suo tempo bollato come Telekabul.

Era il maggio dell’89, e dal palco del 45.mo congresso del Psi all’Ansaldo di Milano l’epiteto fu lanciato da Giuliano Ferrara, dimostrandosi, nella storia successiva, quantomai double-face. Offesa grave agli esordi - intendendo il Tg3 voce faziosa alla pari di quella del regime-fantoccio di Najibullah, piantato in Afghanistan dall’Urss negli Ottanta -, presto ribaltatosi però in appellativo quasi meritorio, grondante nostalgia per un tempo di sperimentazione creativa. «A Giulianone je dovrei fà un monumento», diceva il compianto direttore di quella stagione, Sandro Curzi, ricordando come da quell’invettiva fosse partito il «riconoscimento» del suo Tg come «nemico pubblico».

Lo share s’impennò di 7 punti, i telespettatori passarono da 300mila ai 3 milioni del ’91. Fu una stagione particolare, e vitalissima, del servizio pubblico imperante, il vituperato «Caf». Curzi e i suoi (tra i quali il proto-Michele di Samarcanda) impersonavano la «voce-contro»: quella dei «commmunisti» non più trinariciuti ma pur sempre con «tre emme». L’inventiva del popolare Kojak faceva il resto, perché l’investitura popolare arrivava dalla «ggente» (rigorosamente alla romana) e dal «popolo dei fax». Maliziosamente Bruno Vespa insinuò che per l’arrivo di un fax in redazione il direttore girava tra i banchi entusiasta: «La ggente ci scrive», e se poi i fax erano una decina erano appunto già assurti a «popolo».

Tempi nei quali nella sinistra non s’era ancora smarrito il «contatto con le masse», e tra la «ggente» in piazza non disdegnava di scendere Michele, guadagnandosi i galloni al posto di Ruotolo. Epopea da pionieri, nella quale l’atmosfera sbarazzina e avventurosa partorita dalla riforma dell’87 - nascita della terza rete, data in appalto al Pci - configurava una spartizione rude eppure efficace, senza ipocrisie. A suo modo anche «Telekabul» era uno spazio di «libbertà», e il conformismo del Tg1 e del Tg2 gli onesti corollari a quell’assunto.

Povertà di mezzi, non di talenti, se è vero che da quella stagione nacquero trasmissioni storiche: da Chi l’ha visto a Mi manda Lubrano; da Un giorno in pretura a Blob. Ecco: paragonare la progenie di quelle idee realizzate con poco alla stagione dei milioni di euro che piovono come bruscolini, ai privilegi della mezzobusto viziata, sembra persino sacrilego.

Magari fosse vero il ritorno alle origini, a una sbandierata faziosità di canale, e non la candidatura della Busi con Di Pietro, come a suo tempo fecero i Ds con Santoro. Se poi entrambi facessero voto di povertà per rientrare nel convento di RaiTre, spogliandosi di beni e prebende, sarebbe il massimo. O forse troppo: quello si chiamava Francesco, e non Michele.

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