Sarajevo, la Gerusalemme europea

Dilaniata da 44 mesi di guerra, la capitale bosniaca undici anni dopo ha cambiato volto

Un posto, che tutti i Vauban del mondo avrebbero sognato. Appollaiata in cima alla collina di Vratnik, l’antica fortezza ottomana Bijela Tabija si erge a strapiombo sulla gola scavata nella roccia dal fiume Miljacka, per bloccare ogni invasione proveniente dalle montagne dell’est. Ai piedi della fortezza si estende, da est a ovest, tutta Sarajevo, divisa in due parti dalla Miljacka: per prima cosa, le casette in torchis (malta di argilla e paglia) e le viuzze lastricate del vecchio centro ottomano, dove si susseguono graziose, piccole moschee ombreggiate - proprio come quelle de Lo Scettro d'Ottokar di Hergé -; subito dopo, le facciate con i bassorilievi degli edifici neoclassici in pietra da taglio della città austro-ungarica, il cui centro è occupato dalle due cattedrali, cattolica e ortodossa; infine, il cemento armato delle case popolari e dei complessi sportivi, costruiti dal comunismo jugoslavo che, nel 1984, organizzò - con soddisfazione di tutti - i Giochi Olimpici invernali.
CITTÀ IN TRINCEA
Un abitante del luogo, con il figlioletto tutto biondo in braccio, è venuto a passeggiare intorno alle mura della fortezza, che il governo ha iniziato a restaurare fin dal 2004 per ricavarne un teatro all’aperto. Nazif Sabic, 62 anni oggi, tecnico delle telecomunicazioni locali, ha fatto tutta la guerra civile (dall’aprile 1992 al novembre 1995) nel corpo di artiglieria di difesa della capitale, assediata dalle truppe serbo-bosniache separatiste del generale Mladic. Davanti a questo panorama a 360 gradi, Nazif ci indica con esattezza tutte le montagne del fronte dove, durante i quarantaquattro mesi di assedio, si è battuto nelle trincee con i suoi mortai: Trebevic, Borie, Hresa, Nahorevska brda, Vogosca, Hum, Igman... L’esercito del governo bosniaco, internazionalmente riconosciuto, era per la maggioranza composto da musulmani, ma comprendeva anche alcuni serbi (ortodossi) e alcuni croati (cattolici), legati all’idea di una Bosnia multietnica indipendente.
TRE ANNI DI ASSEDIO
All’inizio del 1992, i serbi di Bosnia, nella loro enorme maggioranza, rifiutavano qualsiasi idea di indipendenza, poiché volevano conservare Belgrado come capitale. Nel marzo 1992, boicottarono il referendum di autodeterminazione, sostenendo che una proclamazione d’indipendenza avrebbe costituito per loro un casus belli. I musulmani (nazionalità creata nel 1971 da Tito per gli slavi di Bosnia, islamizzati nel corso dei cinque secoli di amministrazione ottomana), demograficamente maggioritari, votarono per il sì. I croati fecero altrettanto, ma con l’intento recondito di separare l’Erzegovina (capoluogo Mostar) dal nuovo Stato così creato, per riunirla in seguito al territorio croato. Il 6 aprile 1992, i serbi, militarmente superiori, si trincerarono nel quartiere di Grbavica, sulla riva sinistra della Miljacka, e assediarono il resto di Sarajevo. Iniziò allora un lungo calvario per la città, devastata dai tiri dei cecchini e dai bombardamenti di artiglieria, e si contarono circa diecimila vittime. Ci volle l’intervento militare delle tre grandi potenze Nato (raid aerei americani, inglesi e francesi; forze terrestri franco-britanniche) nell’estate 1995, per rompere l’assedio e indurre i serbi a negoziare (accordi di pace di Dayton, firmati nel novembre 1995).
L’INDIPENDENZA
Gli accordi di Dayton confermarono il riconoscimento internazionale dello Stato indipendente della Bosnia-Erzegovina, creando al suo interno, sul 49% del territorio, un’entità autonoma per i serbi di Bosnia, che venne chiamata Republika Srpska. In questa suddivisione territoriale, l’intera città di Sarajevo fu attribuita a questa seconda entità, battezzata con il complicato nome di Federazione croato-musulmana. I serbi lasciarono allora in massa la nuova capitale, giungendo a costituire attualmente solo il 10% della popolazione cittadina (contro il 25% prima dell’inizio della guerra civile). Questo esodo in massa dei serbi non ha rallegrato il musulmano Nazif Sabic. «Sono cresciuto con gli ortodossi, a Olovo (borgata di montagna situata a venti chilometri a nord di Sarajevo). A scuola, su dieci professori, sette erano serbi. La mia prima maestra era una serba e ne conservo il miglior ricordo. Qui a Vratnik, il mio vicino è un serbo, sposato a una musulmana. Beviamo il caffè insieme tutti i giorni. Questa guerra, scatenata da un pugno di politici a volte irresponsabili e ambiziosi, è stata una catastrofe per tutti. Ha portato miseria ai serbi come ai musulmani».
Tuttavia, dal punto di vista panoramico, a Vratnik non si vedono più i segni della guerra, tanto Sarajevo è stata ben ricostruita in dieci anni di pace (pace garantita dalla presenza di una forza internazionale, oggi esclusivamente europea). Solo sulla collina di Bistrik, si nota che il vecchio cimitero Alifakovac è uscito dalla sua cinta originaria, e file di piccole stele bianche hanno occupato i prati circostanti.
LA RICOSTRUZIONE
Le due torri gemelle di acciaio e vetro Unis (vecchia società statale jugoslava), che erano state incendiate all’inizio della guerra, sono state interamente ricostruite; oggi portano con fierezza il vessillo di due banche private, bosniaca e croata. L’Hotel Bristol, che era stato ancora più danneggiato (perché situato praticamente sulla linea del fronte) è in piena fase di ricostruzione. Sull’arteria centrale (il viale Maresciallo Tito, che i corrispondenti di guerra avevano ribattezzato Snipers’ Alley (Viale dei cecchini), si nota il regolare via-vai dei tram. L’enorme cubo colorato dell’Hotel Holiday Inn (feudo dei giornalisti internazionali durante il conflitto), la cui facciata sud era costellata dai grandi buchi neri delle camere carbonizzate, è stato restaurato fin dal primo anno di pace e funziona oggi a pieno regime. Dietro l’hotel, si può distinguere il tetto dell’immenso centro commerciale ultramoderno Mercator, investimento sloveno fortemente remunerativo.
LE CICATRICI
Scendendo in città, per metà paralizzata dai cantieri a causa del sistematico rinnovo della sede stradale, e osservando attentamente le facciate degli edifici, si possono vedere ancora delle cicatrici aperte. Della splendida biblioteca, esempio unico di architettura austro-ungarica di stile «orientale», non sono rimasti che i muri e il tetto. L’interno è ancora soltanto un cumulo di macerie. Sulla facciata dell’edificio, che dà sulla riva destra della Miljacka, è stata apposta una stele, che dice (in serbo-croato e in inglese): «Nella notte dal 25 al 26 agosto 1992, i criminali serbi diedero fuoco alla biblioteca universitaria nazionale della Bosnia-Erzegovina. Oltre due milioni di opere andarono in fumo. Non dimenticate!». Questo testo un po’ rude non faciliterà certamente la necessaria riconciliazione nazionale, ma riporta dei fatti realmente avvenuti, vissuti all’epoca anche dall’autore di queste righe.
MULTIETNICA
Il governo austriaco ha deciso di finanziare la ricostruzione dell’edificio, costruito nel 1886 come municipio. «È qui che si tenne il primo consiglio comunale nella storia della città. I consiglieri erano 15, in base alla situazione demografica di quell’epoca: sei serbi, cinque musulmani, tre croati, un ebreo», spiega Emiha Borovac, sindaco della città, musulmana, vestita all’occidentale, di un’eleganza ancora un po’ kruscioviana. «Ho deciso che il consiglio comunale si terrà qui, a partire dal 2008, in questo luogo simbolo della convivenza delle culture. Mi auguro che Sarajevo diventi una Gerusalemme europea». La signora sindaco è fiera di sottolineare che, nell’attuale consiglio comunale, i serbi sono sovrarappresentati, con il 20% dei seggi. Minimizza l’impatto dell’enorme e orrenda moschea di cemento di re Fahd, costruita dai sauditi in mezzo alle case popolari nella zona ovest della città. «A causa del comunismo, questo quartiere non aveva mai avuto luoghi di culto. Che ora ve ne sia uno, non è cosa che mi impressioni!».
TRADIZIONE NON SOLO ISLAMICA
Quando la interroghiamo sul numero crescente di donne velate, che si vedono per la strada, ci risponde senza esitare: «Ma non sono certo più numerose qui, che a Londra o a Parigi». Il che, effettivamente, è vero. Male Daire (letteralmente «piccola nacchera») è un incantevole caffè arabo, che si affaccia all’ombra di un platano, su una piazzetta del vecchio quartiere ottomano di Bascarcjia. Gradevoli odori di gelsomino e di cardamomo. Fra i clienti, molte ragazze in jeans attillati e corpetti troppo corti, con l’ombelico in vista. Da una viuzza sbucano improvvisamente due barbuti in berretto da preghiera e ampi sarual, che passano imperterriti davanti al caffè senza degnare di uno sguardo la gente seduta ai tavoli. «Questi islamici, saranno non più di duecento famiglie a Sarajevo, ma la loro presenza mi guasta il paesaggio», confida, in perfetto inglese, Azra Becic, una ragazzina che proviene da una vecchia famiglia musulmana di Sarajevo, e che è stata educata nel rispetto delle altre culture (fino al punto di essere mandata in vacanza per una settimana presso una famiglia serba di Belgrado).
A Jasmina Neziric, una giovane donna di 34 anni, che lavora per una Ong italiana specializzata nel settore dello sviluppo, chiediamo che cosa è cambiato a Sarajevo rispetto al periodo anteguerra. E lei risponde, nostalgica: «La vita notturna è praticamente sparita, salvo che nel periodo del festival cinematografico (tutti gli anni, in agosto). Il futuro del nostro Paese è ovviamente nel turismo e nei servizi. Ma le infrastrutture non vanno avanti, perché lo Stato con i suoi 181 ministri di tutti i generi, è paralizzato da una Costituzione che è la più complicata e la più lambiccata del mondo! Quello che mi preoccupa di più, è la fuga di cervelli fra i giovani. Negli ultimi tre anni, 90.000 persone hanno lasciato Sarajevo, e di queste 10.000 sono giovani che hanno terminato gli studi superiori».
VIVACITÀ CULTURALE
La città non ha perso la straordinaria vitalità culturale che aveva saputo conservare durante gli anni di assedio. L’antica Casa della gioventù di Skanderija - dove, nel soffitto di cemento grezzo a forma di navata rovesciata, si vedono ancora i buchi lasciati dalle granate della guerra - ospita il più completo Centro d’Arte Contemporanea dei Balcani. Chiamato Ars Aevi («Arte della nostra epoca» in latino, e anagramma di Sarajevo), esso contiene più di 140 opere, offerte dai più grandi artisti viventi di tutto il mondo, co-fondatori di questa collezione, unica in Europa. «Speriamo che questo centro diventi il simbolo di una Sarajevo, concepita come luogo di scambio di tutte le culture», spiega la giovane ed entusiasta sovrintendente Amila Ramovic. Apre e ci mostra un grande disegno di architettura: è il progetto del futuro museo della Fondazione, disegnato gratuitamente da Renzo Piano. Nel progetto, il primo piano sarà destinato all’esposizione permanente, il piano-terra alle mostre e agli eventi.

Un museo, che gli abitanti di Sarajevo attraverseranno in continuazione, poiché sarà prolungato da una passerella che oltrepasserà la Miljacka davanti al quartiere di Grbavica.
In questa città, che sogna di diventare la Gerusalemme europea, la cultura è intesa come il miglior antidoto alla guerra...
LeFigaro/Volpe
(traduzione di Rosanna Cataldo)

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