Credevo di trovarmi di fronte una star più dispettosa che capricciosa, protesa a salvaguardare con ogni possibile mezzo il suo mito in ascesa, e invece ho conosciuto un ragazzo sensibile e intelligente che discetta d’arte e filosofia come un neolaureato che progetta di salvare il mondo più con le parole che con le immagini. E s’interroga sulla società e l’avvenire dell’uomo anche se, guarda caso, fa l’attore ed è da qualche anno l’idolo delle ragazzine. Glielo dico e Riccardo Scamarcio esplode in una franca risata... «Credeva davvero che per interpretare Romeo mi bastasse un sorriso suadente e un po’ di quella prestanza fisica che mi viene riconosciuta ogni passo che compio?», mi provoca con un guizzo spavaldo degli occhi. Niente affatto, dal momento che quando l’ho visto in Mine vaganti, l’ultimo film di Ozpetek, ho capito che Scamarcio è un attore, e non un prodotto industriale. Tanto è vero che... «Faccio teatro invece di trovarmi sull’ennesimo set? Meno male, ho sempre paura di venire frainteso. Se ho scelto di gettarmi allo sbaraglio nel ruolo di Romeo non l’ho fatto, mi creda, per sbancare il botteghino».
Per quale motivo allora?
«Per testimoniare il nostro tempo col mio corpo vivo e non solo con la mia immagine diffusa dallo schermo. Davanti a una mutazione genetica allucinante come quella che ci sta coinvolgendo, ho deciso di affrontare Shakespeare col suo dramma più popolare per dimostrare che la passione di Romeo e Giulietta è ancor oggi considerata un pericolo».
Pericolo? Non le sembra di esagerare?
«Tutt’altro! L’amore è un estremo, non uno di quegli incontri fugaci che si consumano in un battibaleno. Per questo fa paura, perché se minaccia di durare e perdipiù si diffonde a macchia d’olio è in grado di gettare lo scompiglio o, peggio ancora, di mutarsi in un gesto rivoluzionario».
Non mi dirà che oggi viviamo nell’apparenza e non nella sostanza?
«Si rende conto o no che le leggi dello spettacolo non sono più quelle di cinque o dieci anni fa? Allora il cinema si divideva tra film d’autore e film di consumo. Mentre oggi...»
Oggi cosa succede?
«Siamo immersi da capo a piedi in un universo tecnologico che, se non ci mettiamo fine, si sta preparando a distruggerci. Che sta cambiando radicalmente le regole del gioco e impiega l’attore come un addendo e non come un protagonista».
Addirittura?!
«Certamente. Lei mi dirà che sbaglio, che la gente va al cinema cercando e condividendo le emozioni che noi gli proponiamo, ma questo è vero solo in apparenza. Ormai i meccanismi produttivi, diciamo pure la sociologia dello spettacolo s’indirizza verso un nuovo mercato che non guarda più al prodotto tradizionale della storia».
L’attore quindi cosa diventerà, secondo lei?
«Un testimonial il più possibile asettico, ottimo a patto di inserirsi in un fanta-universo, quello del Tremila dove la poesia rischia di estinguersi».
Davvero il cinema non ci riserverà più sorprese?
«Attenzione, non ho detto questo. Se il cinema d’autore rischia la paralisi smarrendosi in contraddizioni e ripetizioni, ci sono ancora dei cineasti che, pagando di persona, continuano a porsi il problema della nostra presenza nel mondo».
A chi allude in particolare?
«A Terence Malick e al suo film Tree of life, dove ci si interroga senza false speranze sull’enigma della vita e della morte».
È per questo motivo che due anni fa, con la sua compagna Valeria Golino, si è recato a Napoli a sentire le predizioni della santona di Medjugorje?
«Ci sono andato perché mi interessano, al di là della fede, i problemi dello spirito».
E la regia? Adesso che tanti suoi colleghi si mettono dietro la macchina da presa, pensa di imitarli?
«Per il momento non ci penso proprio.
Come, scusi?
«Si è mai accorto che Marcello proponeva se stesso come un guru non stancandosi di porre domande sull’universo dal primo fino al suo ultimo ruolo?».
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