Scarabocchi apocrifi sui suoi «Quaderni»

Prima Togliatti ne fece un uso in funzione nazional-popolare. Poi il Sessantotto ne capovolse la lezione. E oggi una sinistra senza idee costruisce nuove «casematte»

Nessuno si è stupito più di tanto quando Nicolas Sarkozy, alla vigilia del voto presidenziale francese, ha citato Antonio Gramsci, nel vortice delle polemiche con Ségolène Royal. Nessuno si è stupito, intanto, perché è stata una battuta per esibire l’appoggio ricevuto da tanti intellos, che nell’immaginario collettivo restano iscritti alla gauche, anche se ormai da decenni sono in libera uscita. E poi perché con il passar del tempo i Quaderni del carcere sono diventati un testo trasversale, amato anche a destra. Nel linguaggio politico del nuovo bipolarismo mondiale, definitosi tra il 1989 e l’11 settembre 2001, riferirsi alle categorie gramsciane significa essenzialmente affermare che la cultura non è sinonimo di sinistra, secondo il luogo comune imposto dall’ideologia sessantottina.
Fine dell’egemonia? Certamente sì. Ma non banalizziamone il senso. Quando André Glucksmann ha rotto il vecchio tabù e ha fatto dichiarazione di voto a favore di Sarkozy non ha compiuto un passaggio di campo, da una «casamatta» all’altra. Non ha trasferito l’«organizzazione delle idee» da uno schieramento all’altro. Molto più semplicemente ci ha detto, con il peso della sua storia e del suo pensiero, che ormai c’è solo un vuoto di elaborazione nell’area politica circoscritta dalle tradizioni del post-comunismo, del socialismo, della stessa socialdemocrazia, un vuoto che le novità delle culture antagoniste o no-global non hanno riempito. Ha ribadito che l’innovazione sta altrove. In altri termini, si è tornati a parlare di Gramsci nel momento in cui il «gramscismo» è davvero tramontato e in cui la sua intensa elaborazione può essere restituita alla storia del pensiero e sottratta all’uso del potere.
Si dice «gramscismo», ma si dovrebbe considerarlo come il frutto più duraturo e longevo del «togliattismo». Dell’uso che «il Migliore» riuscì a fare dei Quaderni, traducendo pagine di dotta battaglia delle idee contro il liberalismo in un messaggio nazional-popolare destinato a proporre un’«alleanza delle forze del lavoro manuale e intellettuale» capace di creare «una nuova classe dirigente». Questo nesso, tra il leader abbandonato dai suoi compagni e morto nel 1937 e il leader che poi lo recuperò e costruì l’impresa del comunismo italiano, è da tempo al centro di polemiche e discussioni storiche e politiche. Ma il «gramscismo» come metodo nasce da Togliatti e gli è sopravvissuto, poi trasformato, corretto, se non capovolto dal Sessantotto. È durato a lungo, dall’Italia si è diffuso per il mondo, lungo tutto il corso di una «guerra civile» che ha attraversato e dilaniato anche il comunismo.
Solo che per organizzare le idee e porle al servizio di un’impresa politica sono necessari alcuni requisiti. Il primo è l’esistenza delle idee. E, oggi, le idee nella sinistra non ci sono più. Sono state sostituite dall’organizzazione del potere culturale e dalla costruzione di nuove «casematte», all’esterno delle quali nasce e circola il pensiero che cerca di cambiare il mondo. Se il «gramscismo» avesse davvero ancora un peso, in Italia, calcolando l’orientamento indiscutibilmente di sinistra della gran parte dei mass-media, delle case editrici, delle scuole e delle università, del mondo dello spettacolo, non dovrebbe esserci storia nello scontro politico bipolare. L’egemonia è ormai invece solo il presidio di uno spazio di potere.
Il pensiero - non parlo solo dell’Italia o della Francia - si è ricomposto altrove. Come è successo? Certamente prima del 1989, quando la fine del potere temporale del comunismo, del comunismo «duro», ha via via trascinato con sé anche i comunismi «miti», come quello di Gramsci, e lo stesso concetto di sinistra. Bisogna forse risalire alla rottura provocata dalla Thatcher e da Reagan per misurare la profondità di una divaricazione che si è poi snodata, sul piano culturale, lungo elaborazioni come il neo-conservatorismo americano e i vari strappi compiuti in Europa. Penso a Colletti, a Glucksmann, alla Fallaci, a una diaspora diffusa e continua che non ha avuto nulla di «organico», ma che ha prodotto un fenomeno inatteso, grazie al quale c’è più cultura che politica in quasi tutte le nuove destre neo-liberali nate in Occidente.
È un quarto di secolo che ha consumato anche il «gramscismo» e il suo nucleo duro di polemica anti-liberale. E per avere fino in fondo la dimensione del capovolgimento della storia, l’ultima conferma viene dalla supremazia culturale assunta dalla Chiesa non a caso guidata da un pontefice, Joseph Ratzinger, che è uno dei più importanti intellettuali viventi.

L’egemonia di cui i Quaderni sono stati eletti a emblema è finita perché sono finite le idee che la sostenevano. Gramsci resta un’affascinante lettura. Il suo uso politico ormai un esercizio inutile, la caricatura di una grande e tragica impresa.

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