«Il suicidio permette di sfuggire alla vita; ma non permette di sfuggire alla caricatura postuma, e specialmente alla caricatura fatta, per leggerezza e passione, delle ragioni del vostro suicidio » scrisse Henry de Montherlant prima di uccidersi a 76 anni. Una volta morto, ci fu chi sostenne che quel colpo di pistola sparato alla tempia di un scrittore grande e famoso, era dovuto alla paura di diventare cieco: una ragione plausibile, per un gesto altrimenti incomprensibile, e insieme una ragione pietosa, il suicidio come debolezza, incapacità ad accettare i mali della vita. Eppure, come si era interrogato lui stesso, se il suicida è un vinto, che male c’è? «Dalla società? È un onore. Dalla malattia, dalla vecchiaia? È la natura. Da un nemico? È un soffio nel vento della morte, la vita è fatta di questo. Che il suicida sia o no uno sconfitto, ha poca importanza, se con il suo suicidio ha testimoniato due cose. Il suo coraggio e il suo dominio. E ciò detto, se ammiro il coraggio di quelli che si uccidono, ammiro anche il coraggio di quanti, per una quindicina di secoli, i secoli del cristianesimo, hanno sopportato tutto, le cose più atroci, senza suicidarsi. Il coraggio di morire e il coraggio di non morire».
Mario Monicelli era uno stoico, nato in un tempo che non era il suo e dove quelle che in altre epoche erano categorie filosofiche coerenti si erano trasformate in caricature, un compromesso di qua, un accomodamento di là e alla fine si poteva essere un po’ tutto e quindi niente, asceti ed epicurei, moralisti e sessuomani, atei e bigotti... Lui era stato uno dei re della commedia all’italiana, che nei suoi momenti più alti non è altro che i l sottolineare i l nostro peggio non credendo più nel nostro meglio.
Scriveva ancora Montherlant che «quando uno ha visto il mondo non gli resta che il suicidio o Dio». Monicelli non era credente, ma non è questo il punto e Montherlant lo spiega molto bene nel rendere più comprensibile quella dicotomia. «I romani avevano creato, secondo il costume di allora, un Giove particolare, che avevano chiamato Jupiter liberatore. Era questo Dio che invocavano suicidandosi. Ciò non significava tanto che il dio vi liberava dei vostri mali o delle vostre angosce, ma che era il Dio degli uomini che, almeno una volta , erano stati liberi: quando avevano chiuso, di propria scelta, la loro vita».
Ecco, Monicelli credeva in quel dio degli uomini. Perché ci si uccide a novantacinque anni? Non avrebbe potuto lasciare alla natura o al tempo il compito di mettere la parola fine? C’è chi ha scritto che in fondo il suicidio è un’affermazione di vita; essere disgustato dalla vita significa avere fede nella vita, ritenerla una festa unica, alla quale non si è stati invitati, una tavola splendidamente apparecchiata dalla quale si viene scacciati pur avendo fame. È per questo che il suicidio non è mai stato così frequente come nelle epoche in cui si crede nella felicità. C’è del vero, ma è anche plausibile che chi si uccide da vecchio lo faccia per stanchezza del vivere: sono scomparsi i punti di riferimento, l’età ha inghiottito amori e amicizie, riti e abitudini, e ogni decennio che passa ti costringe a rivedere ciò che è stato e a cercare di accettare ciò che sarà. Puoi a un certo punto decidere che hai visto troppo e hai sopportato abbastanza e ciò che ti attende sarà sempre peggio di ciò che ti sei già lasciato dietro. Come che sia, nemmeno in questo articolo si riesce a uscire da quella «caricatura postuma » da cui fin dall’inizio si sarebbe voluto prendere le distanze.
In realtà, poiché nessun istinto è più intollerante del desiderio di vivere, fatichiamo a capire perché uno possa decidere consapevolmente di morire. Abbiamo bisogno di giustificarlo, ovvero di scusarlo, lo consideriamo un delitto e così facendo lo calunniamo, perché nessuna ragione morale consente di trattarlo a questa stregua. Nel Cretino in sintesi , l’ultimo libro di Franco Lucentini, anche lui morto suicida otto anni fa, c’è un paragrafo quanto mai emblematico che riguarda la morte e la mania dei mass media di interpretarla. «D’accordo, così non è lecito morire, così nemmeno, così è una vergogna, così è assurdo, così è uno scandalo, così è idiota. La morte è divenuta una discussione, un’avaria, un problema, un errore. A questo punto, la domanda si pone da sé: come diavolo deve morire la gente allora?
Come cercatori d'oro, tutti si precipitavano a monte per scavare fuori la verità vera, portare alla luce omissioni e responsabilità lontane e vicine, dirette e indirette, minime e madornali. Noi guardiamo a monte e facciamo esposti, denunce, cortei, decreti, dibattiti, accertamenti. Là in fondo, a valle, ci sarebbe sempre il vecchio Destino, ma non lo vogliamo vedere più». Monicelli si è ucciso gettandosi nel vuoto.
Era malato, hanno fatto sapere le agenzie di stampa, era stanco e si sentiva solo... Muoiono così pensionati e vedovi, studenti e professori, scrittori. Morirono così anche Primo Levi e, appunto, Franco Lucentini. Punto e basta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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