«Si diceva che non ci sarebbe mai stato un Parlamento scozzese. Si diceva che non ci sarebbe mai stata una maggioranza indipendentista. Adesso ci verranno a dire che gli scozzesi non voteranno mai per l’indipendenza». Sta nell’ironia del commentatore della BBC Brian Taylor la portata storica della vittoria dello Scottish National Party alle elezioni di Edimburgo. Non ci credeva nessuno, ma gli eredi del «Braveheart» William Wallace sono maggioranza a Holyrood, il parlamento scozzese, e già promettono un referendum secessionista. Con esiti quasi scontati, dato che nel 2007 il 52% degli elettori aveva votato per il divorzio dai «cugini».
Il vento separatista che spira dalle Highlands, però, non è l’unico uragano che scuote la bandiera stellata dell’Europa e minaccia di strapparla. L’indipendentismo è sempre più un problema per l’utopia cosmopolita di Strasburgo e le «piccole patrie» sono tornate a rappresentare un sogno per un’infinità di partiti e formazioni politico-culturali più o meno radicate. Dissidi religiosi in Ulster, lontananza geografica per le Canarie, sanguinosi conflitti etnici a Cipro o nel Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaigian: motivazioni differenti per un unico ideale mutuato da Montaigne: «La più grande cosa del mondo è appartenere a se stessi».
È lo «ius soli» a muovere le rivendicazioni autonomistiche in Spagna, le più antiche e dirompenti. Ad aprile l’ennesimo referendum consultivo sull’indipendenza della Catalogna ha fatto registrare soltanto il 18% di affluenza, ma un netto 90% di «sì». Cinque partiti nazionalisti che vorrebbero fare della Generalitat (il parlamento regionale di Barcellona) un vero e proprio governo nazionale sganciato da Madrid. Accanto alla Renaixença catalana, costruita sui moti anarchici, la guerra civile cantata da Orwell e il recente boom economico, anche i Paesi Baschi sono da sempre una ferita aperta nell’unità spagnola. Portatori di una cultura e di una lingua millenarie, perseguitati durante il franchismo, i baschi rivendicano l’indipendenza con la politica (i movimenti cosiddetti abertzale) e la violenza terrorista di ETA fin dagli anni Cinquanta. Oggi, nonostante il lehendakari (il governatore) sia il socialista Patxi Lopez e non un nazionalista, le istanze autonomiste non cessano. Dopo anni di messa al bando di ogni formazione politica vagamente collusa con ETA (da «Batasuna» a «D3M», dai comunisti di «Ehak» a «Sortu»), la «ley de partidos» che esclude dalle votazioni i partiti «equivoci» ha ammesso la nuova formazione «Bildu», che si candida a spodestare il ticket centralista di Psoe e Partido Popular. D’altronde, le spinte centrifughe in Spagna sono molteplici. Basti pensare che in Galizia, Aragona e Navarra i partiti territoriali sono numerosi e spesso rappresentati nei «parlamentini».
Aria di scissione anche in Belgio, un Paese sempre più spaccato tra le Fiandre e il Sud francofono. Le ultime elezioni hanno visto il trionfo della Nieuw Vlaamse Alliantie e degli indipendentisti fiamminghi di destra del Vlaams Belang, fautori della separazione dai valloni. Motivazione etno-culturale ed economica. Perché spesso le regioni più ricche, più colpite dal prelievo fiscale, spingono per sganciarsi dal resto del Paese, che vedono come un peso. È ciò che muove gli autonomisti della Vojvodina, la parte settentrionale della Serbia, che mira a imitare la Slovenia del 1991. Stessa cosa per la Scozia ricchissima di greggio e l’industrializzata Padania italiana.
Ma l’egoismo con cui vengono liquidate facilmente le spinte separatiste non basta a spiegare. Non spiega il trionfo degli indipendentisti corsi, che lo scorso anno raggiunsero - tra «Corsica libera» e «Femu a Corsica» - quasi il 30% dei consensi, pagando masochisticamente le loro divisioni al ballottaggio. Così come la ricerca di un tornaconto non spiega neppure le istanze dei bretoni, popolo di stirpe gaelica che vide nell’Armée Révolutionnaire Bretonne un esercito di liberazione e una garanzia di salvaguardia delle proprie radici.
È il principio dell’autodeterminazione dei popoli, così caldamente sostenuto a Versailles al termine della Grande Guerra, il morbo che rischia di far ammalare l’Europa. È quello che in Alto Adige, dove non passa giorno in cui non si rivendichi la distanza da Roma, si chiama selbstbestimmungsrech. Un sentimento che a volte viene disprezzato come ottusità localista, altre viene accolto come diritto universale politically correct, come nel caso del Kosovo. Un blob strumentalizzato, un mito tirato per la giacca da destre e sinistre. È quello che incendia la Moldavia, alle prese con l’indipendenza de factu della Transnistria, è quello che nel Caucaso ha reso dei piccoli inferni le repubbliche sovietiche di Cecenia, Abkhazia, Ossezia e Inguscezia.
Siamo davanti a un’agorafobia continentale: i confini sono improvvisamente troppo larghi e tutti spingono per ritrarsi entro il proprio fiume, nella propria isola, sotto i propri monti. Perché le Scozie d’Europa sono tante. Ma non tutte le indipendenze hanno vinto degli Oscar per i loro Braveheart.
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