Scrittori, militari e dirigenti politici: chiedevano pietà, furono giustiziati

La concezione leniniana del partito, espressa una volta per tutte nel 1921 al X Congresso del Partito comunista russo, non prevedeva alcuna possibilità di pensarla diversamente dal capo. L’unità del partito era considerata un bene troppo importante da sacrificarla alla libertà dei singoli. E del resto, il partito di Stalin - in cui lo Stato demanda le decisioni al Congresso del Partito, il Congresso al Comitato Centrale, il Comitato Centrale al Politbjuro e quest’ultimo trasferisce ogni potere al Segretario Generale - è già perfettamente forgiato da Lenin nel 1921. In una simile situazione, è evidente che l’unico a cui appellarsi per cercare di fermare la macina delle purghe fosse il Segretario Generale, «la guida geniale, il padre dei popoli, il sole del socialismo, il fabbro della felicità generale». In altre parole, Stalin. Recentemente Luba Jurgenson, una scrittrice francese di origine russa, ha documentato in un’antologia questi estremi tentativi di mettere di salvare se stessi o i propri cari, appellandosi all’«umanità» di Stalin. L’idea è stata ripresa in Italia da una ricercatrice dell’Università Cattolica, Maurizia Calusio, che ha preparato un’analoga antologia: Lettere al boia. Scrivere a Stalin (Archinto). Un gruppo di lettere, fino a oggi inedite, scritte tra il novembre del 1936 e l’agosto del 1939 da due agenti segreti (Rajss, Krivckij), un diplomatico (Raskol’nikov), un generale (Jakir), due tra i più importanti leader del partito comunista (Bucharin, Rjutin), il Commissario del popolo agli affari interni (Ezov), i genitori del suo predecessore (Jagoda), l’attrice Zinaida Rajch, moglie del regista Mejerchol’d, e infine tre scrittori di diverso orientamento (Kiršon, Marina Cvetaeva, Šolochov).
Queste che emergono dal periodo del Grande Terrore sono lettere di persone che vedono la morte in faccia. Alcuni di loro, come Bucharin, hanno subito un processo e attendono di essere giustiziati: se mai, chiedono di essere drogati con la morfina e avvelenati, e Stalin invece ordina che vengano fucilati. Altri - è il caso di Ezov e Jakir - ammettono le loro colpe e, in forza del pentimento, chiedono invano di essere graziati; altri ancora - i genitori di Jagoda - prendono le distanze dal figlio e dal suo «vergognoso crimine nei confronti del Partito e dello Stato», sperando di evitare il Gulag e la morte che invece arriverà impietosa. Tre di loro - i due agenti dei servizi segreti e il diplomatico - si trovano all’estero quando vengono richiamati in patria dal boia. Subodorando ciò che li aspetta - un processo di poche ore e la fucilazione - non tornano, si nascondono.

Si illudono così di sfuggire ai sicari di Stalin che invece li scovano e li giustiziano all’estero.
Dei dodici che si appellano a Stalin, si salverà il solo Šolochov che qui è presente con una coraggiosa lettera di denuncia sui metodi degli interrogatori polizieschi, tradotta per la prima volta in italiano.

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