Ci ha pensato per ben sette mesi il Comune prima di trovare il coraggio di esporre l'immagine di Mahsa Amini, la giovane di etnia curda uccisa un anno fa a Teheran per non aver indossato correttamente il velo imposto dal regime teocratico dell'Iran. Sette mesi per metterlo e un solo giorno per rimuoverlo. Sembra impossibile, eppure è così, la ferocia del regime degli Ayatollah e del suo apparato repressivo sui cittadini inermi evidentemente non fa cassetta. Complicato capirne il motivo se non pensando a quel confuso e ormai schizofrenico brodo di coltura nel quale navigano politici e amministratori di centrosinistra.
Perché i diritti da difendere non solo tutti uguali e se è una buona operazione di marketing attaccare il governo Meloni per presunte (e inesistenti) violazioni di quelli della comunità gay, non è evidentemente considerato altrettanto elettoralmente redditizio ricordare chi il 13 settembre di un anno fa aveva perso la vita dopo essere stata arrestata per aver violato la legge «religiosa», solo allentando il copricapo e lasciando probabilmente intravvedere i capelli. Condotta in una stazione di polizia dove ha probabilmente subito il trattamento della «polizia morale», morì dopo tre giorni di coma. Non abbastanza per meritarsi più di un giorno sulla facciata di Palazzo Marino, nonostante l'ondata di proteste in Iran e l'indignazione dell'opinione pubblica mondiale.
Anche a Milano dove a febbraio il Consiglio comunale aveva votato l'ordine del giorno del capogruppo della Lega Alessandro Verri per chiedere lo
striscione. Un voto unanime ignorato per mesi dal sindaco Sala. Poi l'atto di coraggio, durato però giusto il giorno dell'anniversario. E allora oggi quella foto la mettiamo noi. Per non dimenticare mai, mai e poi mai Mahsa Amini.
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