La vita e le opere come un'"Hilarotragoedia" recitata aspettando che l'inferno cominci a funzionare

A un secolo dalla nascita, la biografia dell'autore, scritta dalla figlia Lietta, dipana l'esistenza di un ribelle, dove quotidianità e letteratura sono inscindibili

La vita e le opere come un'"Hilarotragoedia" recitata aspettando che l'inferno cominci a funzionare

In almeno due occasioni, Giorgio Manganelli ebbe la prova provata che il mondo può essere manganelliano. Ovvero sorprendente, cinico, assurdo, gotico e barocco insieme, infero, purgatoriale (paradisiaco no, questo mai). La prima occasione è datata 18 marzo 1945, ed è nota a tutti i manganellofili. Il 23enne Giorgio, membro delle Sap, Squadre d'azione patriottica, è a Roccabianca, in provincia di Parma, e presenzia ai funerali del generale fascista Giovanni Gavazzoli, morto per le ferite riportate durante uno scontro a fuoco con i partigiani avvenuto nella notte fra il 14 e il 15. Ovviamente è lì, con altri suoi compagni, per non destare sospetti... Ma in qualcuno i sospetti si destano, e partono alcuni spari più o meno a caso. Fuggono quasi tutti. Lui, con altri quattro, no. Finisce al muro per essere fucilato. Quando è tutto pronto per l'esecuzione, il padre del morto urla in dialetto indicando Giorgio: «Non è lui, non è lui; lui è il professore di mia figlia». Era vero, quel magrolino ricciolino dava lezioni alla figlia di Gavazzoli senior. Morale: i cinque passano in un amen dalla morte all'arresto. Tradotti in carcere e sottoposti a una bella ripassata a mano, vengono in breve rilasciati per ordine del comando tedesco. Se a Dostoevskij, quasi un secolo prima, era servito l'intervento dello zar Nicola I (che commutò la pena dalla morte ai lavori forzati) per aver salva la pelle, a Giorgio bastò il cuore tenero, ancorché fascistissimo, di un papà.

Il secondo episodio, Lietta, la figlia del «Manga» o del «Mangagnifico», come lo chiamava Luciano Anceschi, non me lo aveva fino ad ora raccontato, al tavolino di un bar o durante le nostre fluviali telefonate. Me lo racconta (ce lo racconta) ora, nella biografia del padre. Eccolo. È la mattina del 23 maggio 1981. Giorgio per lavoro e Lietta per incontrare un illustre clinico, si trovano casualmente a Barcellona. Il cameriere dell'albergo informa i due, ostentando una calma olimpica, che è in atto un assalto terroristico al Banco Central. Ma lasciamo la parola a Giorgio, da un articolo apparso sul Corriere della Sera mesi dopo: «La zona del Banco, isolata dalla polizia, apparentemente era considerata non esistente, duecento ostaggi in mano di una ventina di dementi o sgozzatori di professione turbavano molto meno di una buona corrida, anzi non turbavano per niente, come se gli ostaggi fossero roba da film, o una forma inedita ma non sgradevole di intrattenimento. Onestamente, la persona più agitata che abbia visto quel giorno ero io; continuavo a chiedere a che punto erano le cose, finché mi resi conto che la mia apprensione era molesta e forse indiscreta, e che stavo disturbando un normale week-end spagnolo. Smisi di fare domande, e aspettai la strage, l'esplosione, il massacro. Ora sappiamo che il massacro non ci fu: un terrorista venne ucciso, una decina catturati, gli ostaggi liberati: ma ci vollero tre giorni, e in quei tre giorni la gente non cambiò gesti, voce, vita: il sesso, il cibo, i tram, i taxi, i cinema, le chiese, il museo, tutto continuò come sempre».

Come in questa disavventura cauterizzata, disinnescata, in tutta l'opera di Manganelli il riso e l'angoscia vanno a braccetto, tipo Bouvard e Pécuchet a zonzo per Parigi. Merito e colpa dell'indirizzo «discenditivo», sotterraneo impostole dal suo autore. E leggendo questo libro di Lietta dal titolo ovviamente manganelliano, Giorgio Manganelli. Aspettando che l'inferno cominci a funzionare (La nave di Teseo, pagg. 198, euro 18), questa biografia spiraliforme che procede retrocedendo per tenere il bandolo di un'intricata matassa, apprendiamo che l'opera del Nostro è come la sua vita: una stanzialità centrifuga, una cronologia sincopata, una concatenazione di eventi che sfugge a ogni logica.

Per esempio. Manganelli non nacque perché il civico 4 di via Ruggero Boscovich, a Milano, dove sarebbe nato, esattamente cent'anni fa, non esiste. Manganelli era femmina perché tale desiderava che fosse la sua mamma, Amelia, e come tale fu agghindato per qualche anno onde non sprecare i vestitini preparati all'uopo. Manganelli si sposò, con Fausta Preschern, italianizzata in Chiaruttini per volontà del regime, quando di fatto i due erano già separati. Manganelli ce l'aveva con Dio, al punto da scrivere «Lo odiai molto, prima di sapere che era morto», ma dopo la morte dell'adorato fratello maggiore Renzo sostenne, con intensità mistica: «Nessun dolore è malattia se è secondo la volontà di Dio». Manganelli era un sedentario, un topo da scrivania, ma viaggiò in: Francia, Islanda, Danimarca, Pakistan, Kuwait, Iraq, Cina (due volte), l'Africa dalla Tanzania all'Egitto, Filippine, Malesia, India, Finlandia, Fær Øer, Germania, Argentina, Taiwan, Norvegia. Manganelli aveva in testa una collezione di demoni da fare invidia alla galleria degli oni giapponesi, ma era un burlone dedito alle zingarate in stile Amici miei.

Inoltre, Manganelli era impassibile come una statua e puro come uno spirito di fronte alle bizze della Storia e all'ostilità del mondo, ma sapeva cogliere, con rapidi screening condotti in corpore vili sulla società che lo circondava (lo accerchiava), i mutamenti del costume. Sentite qua: «Essendo misogino, non posso non essere femminista. (...) Amo i tentativi di distruggere la Donna, e guardo con pia approvazione alla demolizione del focolare, velenoso nido di angeli. Ho in uggia la Sorella Consolatrice, e non voglio essere capito, attività funesta in cui eccellono quelle donne. D'altronde, chiunque abbia tanta fatuità lessicale da compilare un corsivo (lo state leggendo) o da scrivere un libro, sa di essere strumento devoto del Femminile, che sta al Donnesco come la letteratura alla cultura». E Manganelli non conosceva il linguaggio del corpo (Lietta ricorda di non essere mai stata abbracciata dal padre), conosceva soltanto quello della scrittura, comunicava tutto su carta. Tuttavia, pur avendo aderito sia al Gruppo 63, sia al Movimento di collaborazione civica, la pensava in un certo modo, a proposito del fare cultura. La pensava così: «Per quale motivo può essere di qualche interesse fare un'opera di promozione culturale oggi? In generale l'idea che portare cultura sia un'attività interessante è legata a un certo concetto della cultura che, direi, è derivata, attraverso una serie di piccoli spostamenti, da un concetto nobilitante delle attività umane, che, ad esempio, qualche tempo fa si esplicava nell'uso del pianoforte o del tombolo. Possiamo dire che la cultura è un tombolo per maschi, che poi viene anche esteso alle loro signore».

Eppure... l'amore. In forme, modalità e circostanze differenti, Manganelli ha molto amato. La madre Amelia, pur possessiva e dittatoriale; la moglie-non moglie Fausta; la figlia («Pensa che strano, riesco a volerti bene nonostante tu sia mia figlia. E nonostante tu sia una donna», e poi un buffetto su una mano); la perigliosa e navigliosa Alda Merini; la pittrice Giovanna Sandri; Ebe Flamini; Viola Papetti; la traduttrice tedesca Marianne Schneider; l'amica «telefonica» Giulia Niccolai. Amò e fu amato, nonostante tutto. Forse grazie ai tanti nonostante. Stiamo pur sempre parlando di uno il cui mantra era: «Poi finalmente si muore».

Nella lettera dell'8 luglio 1974 a Lietta, la lettera per eccellenza, nel cuore della figlia, scrive: «E dunque non si può avanzare che retrocedendo, scrutare nella compattezza delle tenebre, patire le tenebre e sapere di non poter fare nessun'altra scelta». La vita e l'opera di Giorgio Manganelli sono una centuria di innumerevoli hilarotragoediae. Va ringraziato per entrambe.

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