Servello: «Nostalgico e irriducibile per amor di libertà»

La lunga vettura americana targata QC8112NY47 trasporta una cassa piuttosto corta, di legno chiaro avvolta da due fasce di lamiera. È la seconda automobile di un piccolo corteo che percorre il tragitto tra Cerro Maggiore e Forlì. È il 29 agosto 1957. Il corpo del duce sta compiendo l’ultimo viaggio. Ironia della sorte, ad accompagnare Benito Mussolini è chi quel corpo avrebbe dovuto proteggere, ma da vivo: Vincenzo Agnesina, questore di Milano con alle spalle trascorsi fascisti, responsabile della scorta personale di Mussolini proprio nei giorni in cui il duce era stato catturato.
E guarda caso è sempre lui, l’ex capo della guardia presidenziale fascista che scopre, nel 1946, chi aveva trafugato il cadavere di Mussolini dal cimitero di Musocco. Chi? Domenico Leccisi, ventiseienne, originario di Molfetta. Un gesto, racconterà il fascista Leccisi, per «far sentire che eravamo vivi più che mai», un rito «per rendere una degna sepoltura e un cristiano funerale al duce, dopo il vilipendio di piazzale Loreto». Un gesto, un rito dedicato agli «sconfitti», ricorda oggi Tomaso Staiti: «Avevo 14 anni e quando arrivò la notizia ai miei genitori e a tutti gli “sconfitti“, dissero: “C’è stato qualcuno che ha osato“. E questo rimise in piedi la speranza». Quella «speranza» che Leccisi, dal carcere, dopo il ritrovamento della salma trafugata, aveva messo nero su bianco in una lettera indirizzata al presidente della Repubblica: «Si illude di aver stroncato il movimento fascista perché è stata recuperata di nuovo la salma di Mussolini. Non è vero: l’idea non muore».
«In quel virgolettato c’è tutto Leccisi» chiosa Franco Maria Servello, sessant’anni di Fiamma, un passato e un presente da «vero conservatore», fedele ai «valori di sempre» ma aperto «all’esperienze della modernità». «Leccisi era un nostalgico, toccava le corde del passato. Mi ricordo ancora gli scontri dialettici di quegli anni del primo dopoguerra con Leccisi eletto in consiglio comunale a Milano insieme a me, al professor Manlio Sargenti e a Vincenzo Battigalli. Scontri tra lui, irriducibilmente fascista, e chi nel Msi senza rinnegare e nel nome del rinnovamento guardava al futuro». Come dire: «Leccisi aveva il gusto del bastian contrario, quello che tra l’altro lo spinse persino allo sciopero nei giorni della Repubblica sociale, con dimostrazione davanti alla prefettura di Milano». Fatti e misfatti che il trafugamento colorano da spy story: «Erano in tre, quella notte: Leccisi, Mauro Rana e Antonio Parozzi. Non sapendo dove mettere il corpo lo portano a Madesimo, dove uno dei tre ha una casa in affitto. Le autorità, intanto, ne arrestano uno. Gli altri, riportano la salma a Milano e la fanno girare per tutta la città fino ad affidarla a padre Parini del convento di Sant’Angelo». Undici anni dopo, nel 1957, Leccisi divenuto parlamentare, continua Servello, offre «il suo voto al governo monocolore dc presieduto dal predappiese Adone Zoli. In cambio? Che la salma del duce sia sepolta nella tomba dei Mussolini a Predappio».

Il resto è il viaggio nella notte tra Cerro Maggiore e Forlì e il corpo del duce tornato in terra di Romagna. Finale di un’Italia venuta a patti con il nostalgico Leccisi, morto ieri a 88 anni, che, osserva il figlio Gabriele, fu «onesto oppositore alla defascistizzazione del Msi».

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