In uno dei racconti di Francesco Permunian un nome che evoca lignaggio da giullare, da re magio del parlar materno appare, tra ombre e maldicenze, Raffaello Baldini, il grande poeta di Santarcangelo di Romagna, nato un secolo fa. Baldini, detto «Lello», lavorò una vita a Panorama, a Milano e ha scritto bellissime poesie in lingua di Romagna cito, a caso, le raccolte La nàiva, Ad nòta, Intercity. Nel racconto di Permunian, dal titolo Immortalità, un tizio si lamenta perché «dopo tutto il Sangiovese che gli ho sempre procurato a buon prezzo», Baldini «non ha mai citato la mia persona fra i tanti romagnoli che parlano e vivono nei suoi libri». Al poveruomo, il poeta ha tolto l'unica «forma di immortalità» a cui poteva aspirare. Nel racconto si cita anche «Scureza ad Corpolò», il leggendario motociclista «che sfrecciava spavaldo sulla sua Guzzi in quel film di Fellini»: oggi, novantenne, benché reso immortale da Amarcord, ha la mente disfatta, non ricorda «più nulla di quella sua comparsata giovanile e a malapena si rende conto di essere ancora al mondo mentre trangugia in silenzio la sua pastina in brodo dentro l'ospizio di Santarcangelo di Romagna». Che bellezza quando i poeti distribuivano i nomi, conferendo ad ogni cosa un'aura di immortalità e che maledizione non potersi dimenticare di sé, sparire al proprio passato.
Ma vorrei tornare a Baldini, perché c'è un altro personaggio che, per statura, potrebbe far sfoggio di sé nella parata di Teatri minimi della Valpadana, il nuovo libro di Permunian (Quodlibet, pagg. 176, euro 15). Baldini, il poeta, faceva parte del fatidico «È circal de' giudéizi»: il più noto del club era Tonino Guerra, il più talentuoso era Nino Pedretti, il più giovane era Gianni Fucci. Classe 1928, nato in Francia da genitori italiani, cresciuto a Santarcangelo, Fucci aveva tentato la via del cinema, su suggerimento di Tonino Guerra. A casa dell'amico, d'altronde, «giocavo a bocce con Michelangelo Antonioni e Monica Vitti». Aveva iniziato come aiuto regista di Elio Petri, ma non lo convinceva quel «comunista, generosissimo» che viveva in una casa romana «piena di quadri di Zavattini e di altri artisti importanti», con una «cameriera dai lunghi guanti, perfettamente agghindata» che serviva cena. Quando si trattò di andare a Roma, Fucci restò a Santarcangelo, dove fu impiegato, infine, come responsabile della biblioteca civica. A Santarcangelo lo conoscevano tutti, di tutti i santarcangiolesi Fucci conosceva glorie e vergogne. Rumànz (Il Vicolo, 2011) è il suo libro più importante: una ariostesca «epica familiare in dialetto santarcangiolese» Piacerebbe a Permunian, gliela procurerò. «Chi sa se saprò dire sono disperso,/ nell'alba chiara di giglio brinato! / l'Immenso o il Nulla: come l'Universo?», scrive in una terzina che qui riproduco in italico gergo. Sul divano di casa aveva ospitato Andrea Zanzotto; si vergognava, di fianco a Mario Luzi, a dire che era un poeta. Il pudore non lo alienava dall'osservazione cinica e sconcia. Quando morì, nel febbraio 2019, il suo feretro fu accolto nella sala del Consiglio comunale, il Sindaco fece il discorso, la città mise il lutto, i concittadini accorsero a migliaia. «I santarcangiolesi sono pazzi», mi dicono. Forse è vero. Ma è pur vero che soltanto in provincia, dove il pettegolezzo si tinge di fiaba e la trivialità è gemella del mito, il poeta è onorato come un re, temuto come un fool.
Le storie catalogate da Permunian, una glittoteca di stravaganze, un museo di imperdonabili freak, mi ricordano quelle che mi raccontava Fucci. Su tutto, è il sesso a dilatare gli sketch in ghigno, in chimerica risata. Così, in Dame d'antan e cavalieri serventi compare un «bel negretto sessualmente iperdotato precettato per pochi spiccioli da svariate matrone e donzelle residenti lungo tutta la dorsale appenninica»; in Surplus «un maresciallo dell'Arma a riposo» se la fa, a pagamento, con una «brava casalinga del sesso a domicilio», soprannominata la sartina, che riceve «in casa sua, al quarto piano di un elegante condominio a un tiro di schioppo dai Giardini Margherita»: gli appuntamenti «glieli fissa il marito», il quale pretende appunto anche il surplus (cento euro, per la cronaca) se la moglie ingoia «il lurido sperma» del cliente. Il tutto, in Permunian rarissimo, tra gli scrittori d'oggi, nel disporre del grottesco e della dardeggiante crudeltà , è privo di movenze pornografiche. L'eros non c'entra, qui: il bruto sesso, semmai, insegna che la provincia, nella sua sapida insania, è ancora sana, buona, giusta, a riparo dal lindo letamaio degli incontri su Tinder, dalle ossessioni dei palestrati, unti, bisunti, specchianti, che fanno l'amore con se stessi, dalle belline da Instagram, tutte uguali. A un certo punto in Considerazioni sull'uso del Viagra e sull'importanza delle buone samaritane il tizio di prima s'impone un codice morale: «procurarsi una femmina padana, meglio se non di primo pelo, che a letto mi metta a mio agio. Preferibilmente una tipa nostrana sulla quarantina... Niente più sesso consumato in fretta e furia grazie a pericolosi aiutini chimici!».
In uno dei racconti più belli I paria della creazione, mirabile titolo di cui si dà ragione in nota l'attacco, apocalittico («In sogno. Una strada bianca di campagna sulla quale si fa avanti, sbucando da una gran nuvola di polvere, un bambino macrocefalo dall'aria inquietante»), regge una vicenda grandguignolesca di cui sono protagonisti «la Giovanna del Titòn», donna «un tempo sensualissima», andata in sposa a un «venditore ambulante di rane acquaiole», e il figlio, Robertino, nato con una testa grossa il doppio e «uno scroto degno di un puledro», che va strofinandosi «perfino dieci o venti volte al giorno ricavandone un evidente appagamento sessuale».
A un certo punto del libro costituito da «trentuno drammi & drammetti» che a me ricordano quel sentiero del nostro canone pullulante di geniacci poliglotti: dal Folengo a Dossi, da Bonaventura Tecchi a Landolfi e Parise due figure si contendono l'ardore del dire. La prima è Jovanka, «Madame Bombonera» per via del possente deretano già sposa di uno che gode nel mettersi vibratori nel didietro, finita a fare il circo: «si esibisce sulla groppa di un elefante trainando sette nani attaccati alla coda di quel proboscidato». La seconda d'arcuata bellezza si chiama Tristana, altra moglie del porco sadomasochista di prima, sordomuta, cresciuta dalle suore, dal «fragile equilibrio psicologico». Nel «teatrino» più spericolato, Tristana parla, a parlare è lo spirito di costei: racconta del marito che fa visita alla sua tomba, si acquatta in un cespuglio, «tira fuori dalla borsa quel paio di scarpine col tacco alto da me indossate nel dì delle nostre nozze» e «incurante del dolore, ma gemendo di piacere, inizia a percuotersi selvaggiamente il petto e il basso ventre». Sembra una scena tratta dal Teatro di Sabbath di Philip Roth: più fatale, se possibile.
D'altronde, Permunian me lo immagino così: di borgo in borgo, come i pupari, con il carretto pittato, a raccontare le gesta dei suoi sghembi eroi.
Si apre il sipario, tutto è risaputo e nuovo al contempo, di se stessi e del proprio scempio si ride, a denti sguainati. Il narratore è invisibile, come un dio beffardo: sembra infierire, ma la sua pietà, in fondo, è leonina.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.