Lo sgombero dei coloni finisce nel sangue

Lo sgombero dei coloni finisce nel sangue

Scambiare terre e persino cittadini. Il piano per il ritiro dai territori occupati e la nascita del nuovo Stato palestinese non solo è pronto, ma è anche assai ardito. A dar retta alle indiscrezioni, pubblicate ieri dal quotidiano Haaretz, Israele potrebbe abbandonare il 95 per cento della Cisgiordania e scambiare il restante cinque per cento, ovvero le colonie destinate all’assorbimento, con zone dell’attuale stato israeliano a maggioranza araba. Ad evidenziare le insidie di qualsiasi piano di ritiro contribuiscono però le immagini dei furiosi scontri di Hebron dove esercito e polizia hanno battagliato tutta la mattina di ieri per espellere le centinaia di coloni asserragliati da sei anni in un edificio nel mercato della città vecchia. Il destino degli estremisti, convinti di difendere i diritti storici di alcune famiglie ebraiche espropriate dal governo giordano nel 1948, era già stato deciso dalla Corte Suprema. Le cariche di soldati e poliziotti intervenuti a colpi di idrante lacrimogeni, manganelli e la risposta degli assediati armati di sassi, olio, palloncini d’acqua colorata e cemento a presa rapida hanno rievocato gli sgomberi di Gaza. I 14 feriti tra le forze dell’ordine e i 12 tra le fila dei coloni testimoniano però l’asprezza e la rabbia di uno scontro ristretto fisicamente allo spazio di un singolo edificio. Quell’edificio diventa così la punta d’iceberg del ben più devastante scontro tra la tradizionale natura laica e democratica dello stato israeliano e l’emergente vitalità di una componente nazional-religiosa poco incline al rispetto delle regole democratiche.
A render ancor più infuocata la partita contribuisce la polemica tra alcuni rabbini, pronti ad esortare alla disobbedienza i soldati di leva, e il ministro della difesa Ehud Barak determinato nel ricordare che sotto le armi contano solo gli ordini degli ufficiali. Lunedì dodici militari avevano rifiutato, su consiglio dei rabbini, di partecipare all’evacuazione del mercato di Hebron. Ieri Ehud Barak ha però lanciato un durissimo monito agli esponenti religiosi. «Nel nostro esercito - ha ricordato il ministro - non c’è spazio per la disobbedienza, nello Stato d’Israele esiste un solo esercito... al suo interno gli ordini spettano ai comandanti di plotone, compagnia e battaglione e a nessun altro... per quanto importante o rispettato sia».
A buttar giù lo schema di ritiro divulgato ieri da Haaretz ci ha pensato negli scorsi mesi l’attuale presidente Shimon Peres. A realizzarlo potrebbe provarci Ehud Olmert. Ma prima di tuffarsi in una simile impresa il premier vuole esaminare le reazioni dell’opinione pubblica nazionale ed internazionale. Non a caso i dettagli del piano - passati ad Haaretz da fonti vicine al premier - vengono immediatamente smentiti dall’ufficio di Olmert. Il capitolo più temerario dello schema riguarda l’ipotetico trasferimento di territori israeliani e di cittadini arabi-israeliani sotto la bandiera della nascente entità palestinese. Non si tratterebbe, diciamolo, né di deportazione, né di trasferimento forzato. La bozza di Shimon Peres prevede solo movimenti volontari. Passerebbero sotto bandiera palestinese solo gli arabi israeliani disposti a farlo, gli altri verrebbero ricollocati in altre zone dello Stato israeliano. Conoscendo la sensibilità delle istituzioni internazionali, prima fra tutte le Nazioni Unite, di fronte a trasferimenti anche volontari di popolazioni nessuno nell’ufficio del primo ministro si fa troppe illusioni. Far digerire un simile piano alla comunità internazionale senza il consenso di sauditi e americani sarà estremamente arduo. Sul piano interno l’azzardo potrebbe però impedire l’uscita dal governo di Yisrael Beiteinu, il partito di estrema destra del ministro Avigdor Lieberman.

La garanzia di una presenza etnicamente e religiosamente più omogenea sui territori dello Stato ebraico soddisferebbe infatti le ansie di un’estrema destra assillata dall’incubo di una minoranza arabo-israeliana in costante crescita demografica. D’altra parte bisogna chiedersi quanti arabi israeliani siano pronti ad abbandonare le certezze e le garanzie sociali offerte dallo stato ebraico per tentare la sorte sui territori del nuovo Stato palestinese.

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