Igor Principe
Con ogni probabilità, è il più grande regista russo vivente. Dunque, non si può che rimanere stupiti quando si apprende che Lev Dodin ha affrontato il suo primo Shakespeare solo il 17 marzo scorso, al Maly Teatr di San Pietroburgo (di cui è direttore), dopo quarant'anni di carriera. «Un regista sceglie di volta in volta lo spettacolo da affrontare - dice - e può farlo in due modi: uno è chiedersi «perché non un bell'Amleto?»; l'altro è cercare di capire come stanno le cose intorno a lui, affidandosi all'autore inglese. Shakespeare richiede maturità artistica e ottimi attori: penso di avere entrambe le cose».
Per il battesimo scespiriano Dodin ha scelto Re Lear, e il Festival del Teatro d'Europa del Piccolo per la sua prima rappresentazione fuori dai confini russi (in scena al teatro Grassi da domani a domenica 14), consolidando il fecondo rapporto che lo lega al teatro milanese. «Mi sorprende constatare come la storica sede del Piccolo somigli al nostro Maly - spiega -. Farlo qui, dove Strehler ha rappresentato il suo straordinario Lear, mi rassicura: credo che lo spirito di Giorgio sia ancora in sala, e per noi è come una provvidenza che viene dal cielo».
Un altro spirito lo accompagnerà in questa sua settimana meneghina, e certamente in futuro: quello di David Borovsky. Per anni è stato il suo scenografo di fiducia, ed è scomparso da poco. Parlandone, Dodin non riesce a trattenere l'emozione. Anche perché il suo ricordo vive nelle scene di questo spettacolo. «È stato il suo canto del cigno, al quale ha lavorato per un anno dei tre spesi sull'allestimento. Abbiamo fatto un lavoro di sintesi, cercando di ottenere una determinata atmosfera e ricordando che Shakespeare, quando rappresentava i suoi spettacoli, non aveva scenografie. Le nostre vogliono essere uno zoom su quanto accade sul palco, sugli attori. Nessuno si aspetti cose colossali, magari durante la scena della tempesta. La vera tempesta è nella testa dei personaggi. Troppo spesso, invece, la fanno elettricisti e fonici».
Il regista lascia intendere di essersi staccato dalle interpretazioni diffuse del teatro scespiriano, che lui definisce «stanco». «Col tempo si è affermato un modo di fare Shakespeare che gira sempre su se stesso e non trova sbocchi - afferma -. Le interpretazioni sono sempre in bianco e nero, e sempre politicizzate. Quanto allo stile, o lo risolvo il chiave storico-romantica o la butto sulla metafora contemporanea, con gli attori in jeans. Alla fine, se ne perde il senso, che invece è proprio la cosa principale di questo autore».
Il tormento e il destino di Lear non appaiono, nell'ottica di Dodin, come esclusiva di un re. Anche perché la morte è qualcosa che riguarda tutti. «Pensiamo che tutto dipenda dalla politica, ma Shakespeare ci dice che è altro a incidere sul nostro destino. Re Lear è una tragedia dell'esistenza, dove capitalismo o comunismo, dove il sogno di una giustizia giusta soccombono di fronte alla constatazione dello scontro tra la finitezza della natura umana e il sogno dell'uomo di essere infinito.
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