L’avvocato Giuliano Pisapia, eccellente avvocato, è invece un sindaco piuttosto mediocre. Alterna alti e bassi e non si capisce che strada voglia imboccare per Milano. Alla piccola sconfitta sulla sospensione del pedaggio nell’Area C, affianca la piccola vittoria sul registro delle unioni civili, una pura velleità. Ha accolto il Papa in città con la devozione filiale che gli deriva dall’essere stato allievo di don Giussani, ma è in freddo con l’arcivescovo, cardinale Scola, che di lui diffida temendone un via libera ai poligami islamici. Arriva a Milano il Dalai Lama e dal sindaco arancione - pacifista conclamato - si attendeva il dono della cittadinanza all’eminenza tibetana. Invece, solo una stretta di mano alla chetichella tra le mura di Palazzo Marino, per scongiurare il boicottaggio cinese dell’Expo. Trionfo della ragion di Stato, in salsa meneghina, in contrasto con gli ideali universalistici sbandierati durante la campagna elettorale.
Poi, però, riscopre gli «ideali» nel modo più farsesco con la storia dell’ex estremista rosso, Maurizio Azzollini, inserito nel suo staff. Azzollini, oggi ultracinquantenne, è il ragazzotto dell’Autonomia milanese immortalato nella foto anni Settanta con passamontagna e pistola mentre spara alla polizia il 14 maggio 1977. Durante la manifestazione, fu ucciso (da altri) l’agente Antonio Custra. Bè, che fa la giunta Pisapia?Prende l’Azzollini ingrigito, oscuro dipendente comunale, e lo promuove capogabinetto del vicesindaco. Alle proteste, a partire da quella della famiglia Custra, replica Pisapia con le alate ovvietà di circostanza: tutti hanno diritto al «reinserimento sociale» e «all’emancipazione dall’errore »; anche i protagonisti degli anni di piombo hanno «diritto all’oblio ». Nessun cenno ai morti e all’infamia del terrorismo.
Colpita dall’ottusa insensibilità del sindaco, la vedova Custra gli ha risposto tagliente: «Un conto è consentire a chi ha sbagliato di emanciparsi dagli errori, un altro è approfittare dell’oblio per elevarlo a posizione di responsabilità quando per la storia ne ha ben altre».
Giuliano è un figlio di papà che si è permesso tutti i lussi di chi ha le spalle coperte- ribellarsi, fare il perdigiorno, flirtare con il terrorismo - per poi riallinearsi alla vita alto borghese cui era destinato con, in più, quell’alone di estremismo politico che ne ha fatto un beniamino dei salotti. Da questa formazione contraddittoria derivano i suoi tentennamenti.
Figlio del casertano Giandomenico, uno dei grandi penalisti della seconda metà del Novecento, il Nostro fu messo al mondo a Milano nel 1949. I rampolli Pisapia erano sette, cinque maschi e due femmine. La mamma li educò alla religione. Giuliano è stato scout e, nel liceo classico Berchet, ebbe come insegnate don Giussani, il fondatore di Cl. Più del prete, influì però su di lui lo spirito del tempo: il Sessantotto. Abbracciò la sinistra ed entrò nel Movimento studentesco. Si atteggiò a contestatore, prima che della società, della stessa famiglia.
Questo si può capire. Il padre era un monumento: illustre, stimato, potente. Ingombrante per il giovanotto che fece tutto a dispetto del genitore. Per non seguirne le orme, si iscrisse prima a Medicina, poi fece la naja tra gli Assaltatori - «Gli sfigati. La carne da macello della Prima guerra mondiale. Anche questo mi ha messo dalla parte dei più deboli», ha raccontato - , di ritorno lasciò l’università, divenne operaio in fabbrica, educatore in un carcere minorile, impiegato di banca. Unica costante nel bailamme, la partecipazione «alle lotte operaie studentesche». Improvvisamente, riprese a studiare. Frequentò Scienze politiche - la moda tra gli estremisti, modello Trento - e scoprì il diritto penale e «l’importanza sociale del ruolo della difesa». Si laureò in Scienze politiche, poi in Legge. A questo punto, la cosa più logica era entrare a studio dal babbo. Invece, prese il ramo civile per marcare le distanze. L’ennesimo infantilismo, ormai alle soglie dei trenta. A fare barriera tra lui e il padre, era l’impegno politico. L’estremismo di Pisapia jr si era accentuato. Dal Ms erano fioriti i più demenziali filoni: Br, Potop, Lc, Autonomia operaia, eccetera. Giuliano apparteneva a una costola dell’Autonomia, il Collettivo della libreria di via Decembrio.
Un giorno, a furia di scherzare col fuoco, si bruciò. Tre terroristi incalliti - Massimiliano Barbieri, Roberto Sandalo, Marco Donat Cattin di Prima linea- furono acciuffati mentre rubavano un furgone. Il trio confessò che il furto serviva al sequestro di un altro della loro stessa risma, ma rivale. Costui, tale Sisti, era un picchiatore del Movimento lavoratori per il socialismo autore di pestaggi contro il Collettivo di via Decembrio, quello di Giuliano. L’obiettivo perciò era dargli una lezione. I tre terroristi aggiunsero di avere congegnato il piano insieme a Pisapia durante incontri avvenuti nell’appartamento che Giuliano divideva con un cugino. Appreso quanto sopra, il pm Armando Spataro incriminò i due cugini per partecipazione a banda armata e concorso morale nel furto del furgone. Così, già trentenne, cresciuto e vaccinato, Giuliano Pisapia, con scandalo universale della Milano bene, fu sbattuto quattro mesi in galera. Ne uscì con una ripugnanza per la detenzione preventiva che non lo ha mai abbandonato nella vita professionale e che ha fatto di lui un garantista a ventiquattro carati. Giuliano si è sempre proclamato innocente. In primo grado, il tribunale giudicò solo il furto perché dalla banda armata era stato prosciolto prima del processo dallo stesso Spataro. Ciononostante, Pisapia non riuscì mai a perdonare del tutto il pm. Per decenni, stentò a stringergli la mano. I giudici lo condannarono per il furto, ma applicarono l’amnistia. Giuliano rifiutò subito l’espediente e inoltrò appello puntando all’assoluzione piena. La ottenne con la formula regina: per non avere commesso il fatto. Tutto bene quel che finisce bene. Ma una considerazione va fatta. Pisapia non avrà esercitato la violenza, ma ne ha subito il fascino. Più che sfiorare il terrorismo, lo ha bazzicato. Ha parlato, riso e si è accordato con assassini fatti e finiti. Tanto familiari da averli ospiti in casa.
Oggi è di un’altra pasta. Sempre estremista - è vendoliano ma in salsa umanitaria.È tra i giuristi più garantisti d’Italia. A sinistra, un uccello raro. Vi do la prova. Un giorno il sottoscritto gli ha posto una domanda infernale per uno che passa per comunista, sfruculiandolo sul nazismo. «Priebke è ancora detenuto, unico tra i reduci della Seconda guerra mondiale», gli ho detto. Risposta: «Un quasi centenario in stato di detenzione non serve a nessuno. Fondamentali erano processo e condanna. Scontarla non serve alla sua rieducazione ». Domanda: «Gli darebbe la grazia anche se fu nazista?».
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