Sinjavskij, il dissidente che fece impazzire la polizia del pensiero

Di giorno era un professore di giornalismo. Di notte diventava "Abram Terc" e scriveva contro l'Urss

Sinjavskij, il dissidente che fece impazzire la polizia del pensiero
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Negli anni Settanta, in Italia, si parlava dell'ormai prossimo sorpasso dell'economia sovietica sull'ormai declinante libero mercato. In realtà quel decennio segna l'inizio della fine per l'impero sovietico. È l'epoca dell'espulsione dei dissidenti, Sinjavksij e Daniel, Solgenitsin e Brodskij. Nonostante gli sforzi di Giorgio Napolitano, su Rinascita e sull'Unità, per convincere l'Occidente della magnanimità dell'Urss, non sfugge a nessuno che le ritorsioni contro gli scrittori, più che una prova di forza, sono un segnale di estrema debolezza. L'intervento in Afghanistan è l'altro sintomo, quello definitivo, di una malattia incurabile: l'esercito invincibile, l'Armata rossa, si avvia a conoscere la sconfitta a opera dei mujaheddin.

Oggi, dichiararsi dissidente contro il fascismo imperante offre molti vantaggi (contratti Rai, grandi editori, inviti di qua e di là) e nessun rischio (le camicie nere sono prevalentemente nella fantasia di questi «eroi» contemporanei). Non sarà quindi inutile ripercorrere le vicende di un dissidente vero, Andrej Sinjavskij (1925-1997). La storia, come tutte le tragedie, ha anche spigolature divertenti. Sinjavksij insegna letteratura e giornalismo. Scrive regolarmente su Noviyj Mir, rivista di regime. Si direbbe integrato. Il professore non si allontana troppo dal realismo socialista imposto, con inaudita rozzezza, dal Partito comunista. Quando torna a casa, Sinjavksij mette la maschera (o se la toglie) e diventa la primula nera dell'editoria: Abram Terc, autore di racconti fantastici dal fondo satirico, e tanti saluti al realismo socialista e al Partito comunista. Terc pubblica all'estero con discreto successo. Le sue opere sono oggi pubblicate da Voland in Tu ed io e altri racconti (traduzione di Benedetta Lazzaro, pagg. 208, euro 18). Uno dei racconti è inedito in Italia.

Il nome di Terc, nell'Europa libera, inizia a circolare nel 1959. Più o meno nello stesso periodo, nelle librerie occidentali, arrivano le opere narrative di Nikolaj Arzak. È lo pseudonimo di Julij Daniel, poeta e traduttore. Un'altra firma di Novyj Mir. Anche Arzak fonde elementi fantastici con una critica radicale dei mezzi coercitivi del socialismo reale.

Terc e Arzak diventano l'ossessione della polizia segreta. Gli spioni cercano ma sono costretti a incassare un poker di Terc (Che cos'è il realismo socialista; Compagni entra la corte; La gelata; Ljubimov) e un poker di Daniel (Le mani; Qui parla Mosca; L'uomo del Minap; L'espiazione).

Alla fine, però, Sinjavskij e Daniel sono catturati. Nel 1966, le autorità optano per un processo-spettacolo, che sia di monito per tutti gli aspiranti ribelli. Gravissimo errore. Infatti la eco sollevata dal caso giudiziario fa il giro del mondo. Ora tutti possono vedere l'Urss mentre cerca di cancellare il diritto di espressione e valutare i passi indietro seguiti alle timide aperture di Krusciov. Non solo. Per molti storici, il processo coincide con la nascita del movimento dei samizdat, le opere illegali scambiate clandestinamente dai dissidenti, sempre più numerosi.

Le pene sono da far tremare i polsi. A Sinjavskij vengono rifilati sette anni di Gulag; a Daniel, cinque. Vengono rinchiusi assieme a Dubravlag, in Mordovia. Nel 1971, dopo l'intervento di Sacharov, sono liberati per intercessione di Andropov, leader del Kgb e futuro segretario del Partito. Due anni dopo, viene concesso ai reprobi di emigrare. Nel 1974, Sinjavskij si trasferisce in Occidente, a Parigi. Diventa il simbolo della dissidenza e pubblica la rivista Sintaksis, in aperta opposizione estetica e politica all'Unione sovietica. Insegna letteratura russa alla Sorbona. Daniel decide invece di rimanere in Urss ma di fatto smette o quasi di scrivere.

I racconti di Sinjavskij sono di una bellezza straniante. Si direbbero storie allegre, o almeno sono scritte come lo fossero, ma una minaccia incombe su tutti i personaggi. A volte sono animali o figure bestiali. Ad esempio i ratti, come in 1984 di George Orwell: «Arrivano a frotte. Scalpitano nel corridoio. Adesso fanno irruzione. Sono venuti a prendermi. E prenderanno anche lei, Sergej Sergeevic. Prenderanno anche lei. Anche lei».

Altre volte è la morte, accolta con una sinistra risata: «Non mi considero un pessimista ma devo dire, assumendomene tutta la responsabilità, che se si analizza più attentamente la sostanza della vita, risulta chiaro che tutto termina con la morte. Non c'è niente di speciale in questo, e sarebbe persino antidemocratico se all'improvviso qualcuno di noi rimanesse in vita e si conservasse».

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