Cefalonia, sulle tracce dell'eccidio subito dagli italiani

La maggior parte dei 5155 italiani morti faceva parte della Divisione Acqui, ma c’erano anche finanzieri, carabinieri e uomini della Regia Marina. La guarnigione italiana si oppose al tentativo tedesco di disarmo, dopo l'8 settembre, combattendo per giorni

Cefalonia, sulle tracce dell'eccidio subito dagli italiani


La memoria inietta il promontorio. Le tracce sono seminate tra un campeggio e qualche casa vacanza, a due passi dal faro di San Teodoro che strizza l’occhio a Lixouri. Ma tutto intorno c’è il sapore della Grecia più amena e le sparute indicazioni confortano solo a tratti. Cefalonia è così, incontaminata e avventurosa come solo isole antichissime sanno essere. Non ricca ma dignitosa, affacciata al turismo ma non sfiancata da quello di massa, ogni anno la maggiore delle isole Ionie è sempre più battuta da visitatori di tutta Europa alla ricerca di spiagge dorate, acque cristalline, falesie imponenti e grotte mozzafiato. Ma a Cefalonia si arriva anche per riscoprire le tracce dell’eccidio italiano.

È qui che dopo l’8 settembre del 1943, giorno in cui fu annunciato l’armistizio di Cassibile che sanciva la cessazione delle ostilità tra Italia e anglo-americani, 5155 soldati italiani furono rastrellati e uccisi dall’esercito tedesco. La maggior parte faceva parte della ormai famosa Divisione Acqui, ma c’erano anche finanzieri, carabinieri e uomini della Regia Marina. La guarnigione italiana si oppose al tentativo tedesco di disarmo, combattendo per giorni. Finì con la resa incondizionata, poi massacri e rappresaglie. I superstiti furono persino deportati su navi che finirono su mine subacquee o furono silurate.

Casetta rossa

Nella memoria collettiva Cefalonia è ancora nome proprio di uno dei più efferati crimini di guerra nel Secondo conflitto mondiale. Per questo motivo i curiosi sono ancora molti, forse oggi più che in passato. Di tanto in tanto si incrociano coppie di ultracinquantenni, sparute famiglie con bambini annoiati o anche solitari over 60. Tutti con zaini in spalla abbronzati al limite del paonazzo e tutti a sussurrare vernacoli d’oltralpe.

Sembrano più cercatori di Storia che turisti. E i segni di quei mesi sono tutti concentrati alla periferia di Argostòli, piccolo capoluogo marittimo dell’isola sulla costa nord-occidentale. La strada comincia lasciandosi alle spalle il ristretto centro abitato: solo pochi chilometri e poi tra agavi e palme svetta lei, la "Casetta rossa". Ha un’aura fascinosa e criptica, anche se non si conosce il suo passato. Ma chi fa capolino lì di solito sente l’intima missione di osservarla e meditare: quel villino tinteggiato di rosso era il punto di raccolta degli ufficiali della Divisione Acqui destinati alla fucilazione.

La sagoma moderna ha ormai poco a che fare con l’originale quartier generale, prima bombardato e poi imploso nel terribile terremoto del 1953. I proprietari hanno però ricostruito l’edificio sulle ceneri del suo antenato, dipingendolo dello stesso colore. Ecco perché sul cancelletto all’ingresso l’anno di costruzione indicato è il 1893, mentre su un’insegna artigianale è stato scritto: "Casa Rossa". I simboli si sprecano. D’altronde è qui che oltre un centinaio di prigionieri di guerra italiani attesero il loro turno davanti al plotone d’esecuzione prima del trasferimento a qualche centinaio di metri per il macabro rituale di morte.

La "Psychological Warfare Branch", branca dei servizi segreti angloamericani addetti alla propaganda, nel bollettino pubblicato nel 1944 scrisse che "il comportamento degli ufficiali italiani alla triste “Casetta rossa” di Cefalonia non appartiene alla storia ma al mito. Ad uno ad uno, nobilissimi cavalieri del dovere e dell’onore, essi salirono con sublime serenità il calvario che ancora li separava dalla gloria". Nel pellegrinaggio laico qualche fortunato si imbatte anche in anziani ciceroni autoctoni, che davanti alla Casetta raccontano ai forestieri ricordi dell’eccidio e storie personali della guerra.

Il viaggio prosegue qualche centinaio di metri più in là. Sulla lenta strada litoranea - metafora del tempo lento cristallizzato nell’azzurro mutevole del mare greco e scandito dal diapason monotono dei grilli - si apre una fossa. È una delle tre utilizzate dai tedeschi per ammassare i corpi degli ufficiali fucilati a Cefalonia il 24 e 25 settembre del’43. Una grande targa in italiano e in greco ricorda davanti alla roccia quei fatti, mentre al di là della strada qualcuno ha ammazzato la noia del buen retiro scrivendo su un muretto un insulto in inglese alla polizia. Chissà se con cognizione. Quella circondata da un recinto e sigillata alla buona con un catenaccio è l’unica "sopravvissuta" delle tre fosse comuni: l’altra si troverebbe a Lardigò, la seconda su un terreno oggi occupato un albergo.ù

Casetta rossa

Bisogna chiudere gli occhi per provare a immaginarle, quelle terribili settimane del settembre ’43 sull’isola di Cefalonia: fa caldo e i colori del Mediterraneo sono ancora in esplosione, ma le comunità rurali greche vivono ormai in ginocchio. Da una parte le acque blu e le colline brulle disegnano la geografia della terra, dall’altra le mulattiere chiamate strade sono una via Crucis di case distrutte e devastazione. Nelle menti dei soldati piegati da una lunga e straziante guerra regnano incertezza, esasperazione e frustrazione.

È un’isola di contrasti. La gioia dell’armistizio dura poco, perché già la sera dell’8 settembre un cannone tedesco viene puntato verso una dragamine italiana, che risponde puntando le mitragliere verso la terraferma. Sono tre giorni di tensione interna al Distaccamento, col comandante Antonio Gandin che prova a proporre una trattativa coi tedeschi per evitare la strage e garantire una resa onorevole. I soldati, però, vogliono combattere. Il 15 settembre comincia la sanguinosa battaglia contro le truppe del 22º Corpo d’Armata tedesco guidate dal generale Karl Hubert Lanz. Sette giorni dopo, con gli italiani ormai allo stremo, il generale Gandin decide di arrendersi e dal balcone della "Casetta Rossa" viene issata una tovaglia bianca in segno di resa. Quando il messaggio arriva a Berlino, è Hitler in persona a ordinare che i soldati italiani vengano considerati come traditori e fucilati.

Fossa, Cefalonia

Molto si continua a scrivere sul vero clima che si creò in seno alla "Divisione Acqui" in quei giorni e sulla necessità di parlare di "Resistenza". Che siano stati insubordinazione, patriottismo o veemenza bellica, nessuna polemica può oscurare l’eroismo delle migliaia di militari italiani che scelsero di battersi. Anzi, ottant’anni dopo, i martiri di Cefalonia sono ancora partigiani declassati. Una Resistenza che Indro Montanelli affianca a quella "quotata in borsa come tale perché avallata dai partiti politici" ritenendola "esclusa dal listino dei titoli, perché quelli, a cui si intestava la Patria e la Nazione, erano ormai scaduti".

Nei taccuini e sugli smartphone dei turisti europei, però, la storia di Cefalonia continua a vivere. Lo provano le migliaia di visite al memoriale costruito dal Ministero della Difesa italiano nel 1978, che si erge sobrio sulla collina di San Teodoro proprio tra le fosse comuni e la "Casetta Rossa".

Se qui si medita, nel museo gestito da volontari nel centro di Argostòli si scoprono le storie dei soldati italiani sull’isola. Sarà per questo che oggi a Cefalonia si respira un’aria tersa intrisa di mito, civiltà, culto e memoria.

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