Poughkeepsie è una città dimenticata. Da molti italiani. Sta a cento chilometri da New York. Difficile, quasi impossibile da pronunciare. Eppure per trentatré anni fece la storia della Fiat. Qui Giovanni Agnelli volle che venisse creata la prima fabbrica oltreoceano, era l’inizio dell’altro secolo, era il millenovecentonove, il mondo cercava nuove imprese, non sapendo ancora della prima guerra totale. Agnelli era rimasto affascinato dalla visita alla Ford: «Dobbiamo fare come loro». Spedì i suoi collaboratori a visitare le catene di montaggio e li gelò con lo stile tipico che sarebbe stato il timbro della famiglia: «Copiate, copiate, copiate e non aggiungete nulla di testa vostra», a Torino si direbbe «siete nen bùn», non siete capaci. In principio furono vetture sportive, la fabbrica avrebbe chiuso nel Quarantadue ma l’America era uno dei balocchi preferiti della famiglia di imprenditori più illustre d’Italia. Toccò al nipote del fondatore rifare lo stesso viaggio a metà degli anni Trenta, cinque mesi di esplorazione e di divertimento, sempre Poughkeepsie, ovviamente New York e ogni tanto, di notte certamente, Hollywood con tutti gli annessi e connessi. Gianni Agnelli e c’era una volta l’America non è un film ma dunque una storia antica e recente, un amore vissuto tra speranze, delusioni, scoperte, illusioni. Un secolo pieno, esatto, dai fotogrammi seppiati della fabbrica nella contea di Dutchess alle sequenze abbaglianti di questi giorni con la Chrysler che fu e che è, la Fiat che non era e che invece è.
Dicono i piemontesi fiattini, nostalgici e romantici, che oggi Gianni Agnelli sarebbe l’uomo più felice, orgoglioso di una realtà che aveva inseguito nel tempo, raggiunta e fallita, ostacolata dal fratello Umberto, se si dovesse dar fede alle parole di Cesare Romiti: l’America, con un presidente di colore, chiede aiuto all’Italia, Detroit disperata e Torino stimolata, oh basta là, il mondo si è rivoltato, la Fiat torna in testa, i grissini rubatà battono (giustamente) gli hot dog. Secondo recente propaganda la “Strada” Fiat sarebbe stata una delle prime auto del giovane Obama, anche questo fa parte della propaganda e pure della ludica nostalgia agnelliana. Si potrebbe ricordare che Edoardo, primo figlio dell’Avvocato, a New York nacque, si potrebbe aggiungere della clamorosa dimora in Park avenue, nel palazzo disegnato negli anni Trenta dall’architetto Rosario Candela, messa in vendita da Sotheby’s, dopo la scomparsa di Gianni, alla cifra base di 25 milioni di dollari. Cartoline illustrate, passate anche nel jet set, le dive e gli attori del cinema hollywoodiano, gli amori con le pupe, le feste al night, i fotografi scatenati all’inseguimento dell’italiano fascinoso, amico dei Kennedy, galante con Jacqueline, che lui definiva una icona della pop art, le buone relazioni con il saggista Arthur Schlesinger jr, due volte premio Pulitzer, o la frequentazione assidua di Henry Kissinger che sarebbe divenuto consulente e poi tutore dei pargoli della famiglia di Villar Perosa, e ancora la General Motor, Rockefeller e McDonald, e Lee Iacocca, con Henry Ford prima di tutto e di tutti, in cima alle esperienze e alle scelte. Il progetto di vedere sfrecciare per le avenue e le street, le piccole utilitarie nate a Mirafiori, avendo un credito di coccole dagli americani, nel dopoguerra, per la creazione della Topolino, il cui nome non era stato casuale. Erano giorni e notti in cui Ghidella pensava di firmare con Ford Europa che però, con la sua teoria imperialista, voleva occupare quasi da sola la stanza dei bottoni. Venne poi, quasi improvvisa, una telefonata dalla Toscana. Qui Lee Iacocca villeggiava nella sua dimora di dieci ettari, Villa Nicola. Al padrone della Chrysler venne un’idea, perché non fondere la propria azienda e la Fiat? Chiamò dunque Agnelli, si incontrarono a Roma, l’idea prese corpo, sostanza, Romiti e Mattioli sarebbero diventati i notai e gli esecutori, Greenwald, poi dimessosi, e la coppia Miller-Lutz avrebbero sottoscritto il patto. Poi Saddam Hussein decise di invadere il Kuwait, il barile del petrolio salì alle stelle, l’automobile entrò in crisi e l’incontro di Roma si risolse in un pranzetto tra vecchi amici.
Ci fu poi, addirittura, il grande sogno, inutile, evaporato, di esportare negli States anche la cultura, o forse il business, calcistico: fu quando all’Avvocato venne in mente di spedire alcuni dei suoi, calciatori e dirigenti juventini, a esplorare il Canada, a giocare con i Blizzard di Toronto, a entrare nel consiglio di amministrazione del club, continuando la scoperta e il petting con gli Stati Uniti, per esibire oltre alle amicizie con gli intellettuali anche quella con il popolo comune, la gente dei bar, gli stessi locali nei quali sarebbe tornato, quasi da anonimo, sconosciuto cittadino, a vedere, davanti a un televisore, seduto a un freddo tavolino, mischiato tra i clienti, pensionati, emigrati nostrani, le partite della sua Juventus, via satellite.
«L’America non è un Paese scaltro, è invece schietto, sincero, dove il lavoro conta più del divertimento». Questo pensava, tra mille altre cose, del suo posto di approdo, dove, in verità, per lui contava, più del resto, il piacere della vita. Non gli era riuscito di realizzare completamente il sogno, aveva provato in ultimo con la carta di forma più che di sostanza, messa sul tavolo da Paolo Fresco, l’«americano» del Lingotto, finito ancor prima di incominciare, quando Detroit sembrava doversi prendere la Fiat ammaccata, umiliata.
Lo ha fatto Sergio Marchionne, un uomo che non faceva parte della storia della Fiat, lo ha realizzato un manager che lui nemmeno aveva conosciuto. Anche questo, forse, faceva parte del sogno americano.
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