Può essere definita straordinaria un'opera costruita quasi integralmente su aforismi? Se l'autore è il colombiano Nicolás Gómez Dávila (Bogotà, 18 maggio 1913 - 17 maggio 1994), la possibilità è concreta. Il pensiero breve solitamente è il vezzo degli autori che, giunti al termine di una copiosa produzione e di una brillante carriera, farciscono di leziosità i loro scritti, non raramente traducendo il moralismo spiccio in frasi da cioccolatino.
Nel caso di Gómez Dávila non è così, perché egli disegna un'intera architettura fatta di oltre 4000 aforismi ma decifrabile anche dal singolo brandello. Come spiega Gennaro Malgieri nella Prefazione al primo volume degli Escolios a un texto implícito ora pubblicati da Gog Edizioni (pagg. 440, euro 15, traduzione e note di Loris Pasinato, opera che includerà in cinque volumi tutti gli Escolios dell'autore) i suoi aforismi sono tasselli di una montante «metafisica antimoderna», dove nessuna frase smentisce nei contenuti un'altra, perché egli mai pensa alle contingenze del suo tempo, quello nel quale Dio è stato addomesticato e vige la retorica egualitaria. Riflettendo sulla decadenza e sulla secolarizzazione, sulla «religione democratica» che con suo grande disappunto è penetrata perfino nella Chiesa cattolica, l'autore pone come prospettiva filosofica l'ambizione di prolungare e trasmettere una verità che non muore e, perciò, non è legata a un tempo, a un'epoca, a una società. E lo fa utilizzando un linguaggio aforistico che si rivela sorprendentemente organico, tanto da essere considerato da Ernst Jünger una miniera per gli amanti del conservatorismo.
Questi aforismi sono però anche il paradigma della sua vita. Paiono frammenti di verità che potrebbero confutarsi a vicenda e che, invece, si rivelano un corpus teorico strutturato. Paradigma perché egli stesso, il «solitario di Dio», fu da tutti considerato una sorta di eremita. Come i suoi aforismi, amava stare da solo e apparire slegato da ogni connessione sociale. Eppure, scavando in profondità, scopriamo che questo isolamento era vero solo in parte. Certo, Gómez Dávila non guardava la tv e raramente leggeva i giornali, ma dovette occuparsi della sua azienda tessile, della tenuta agricola fondata dal padre e curare anche gli interessi della Banca fondata dal nonno. Tuttavia la sua vita fu sempre dedita alla lettura da cui partoriva queste brillanti annotazioni, note a margine che divennero un marchio di fabbrica e che mai venivano apposte sulla pagina del libro in questione, ma su fogli separati che faceva poi dattiloscrivere. L'autore non fece studi regolari e non si laureò, ma l'inesauribile sete di conoscenza lo portò a imparare molte lingue senza mai smettere, tanto che negli ultimi anni iniziò a studiare Kierkegaard in danese. Ormai la sua biblioteca di 31mila volumi, una delle più grandi della Colombia, non gli serviva più a nulla. Ma quando si ammalò volle che il suo letto fosse collocato proprio in quella biblioteca.
Gómez
Dávila non era un asceta avulso dalle cose del mondo e, proprio come i suoi aforismi, riuscì a includere se stesso e la sua opera in un intrigante e generale quadro filosofico, di cui l'isolamento rappresentò solo una parte.
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