nostro inviato a Goro (Ferrara)
Ostriche dell'Adriatico, chi l'avrebbe mai detto. Come quelle francesi, anzi migliori, secondo i pochi eletti che hanno avuto la fortuna di assaggiarle in una «verticale» nel tempio gastronomico di Fico o i deputati della Commissione agricoltura della Camera che a Natale hanno brindato a ostriche nostrane e prosecco. Il mare tra Goro e i lidi ferraresi è il loro habitat ideale tra vongole veraci e cozze, i frutti di mare che qui mantengono migliaia di famiglie. Nella sacca di Scardovari presso Porto Tolle, in provincia di Rovigo, si trova un sito produttivo dell'imprenditore Florent Tarbouriech, ostricoltore in Francia e Spagna. Ma è da Goro, il paese dei vongolari dove nacque Milva, che l'ostrica italiana lancia il suo acuto.
Una parte del merito è di un biologo, Edoardo Turolla, dell'Istituto Delta ecologia applicata, legato all'università di Ferrara, che a Goro ha un laboratorio di ricerca, il Crim. Turolla si occupa soltanto di molluschi ed è un grande appassionato di ostriche, che da queste parti sarebbero state coltivate addirittura prima che in Francia. È pure un pescatore che conosce ogni segreto di questo specchio di Adriatico, sul margine meridionale del delta del Po. In oltre 20 anni di studi Turolla si è messo al petto due medaglie. Con un paziente lavoro nello schiuditoio di Goro, è riuscito a fare riprodurre alcune ostriche autoctone che alcuni pescatori avevano trovato sui fondali. Siccome la conchiglia presenta forti riflessi dorati, l'hanno chiamata Goro golden oyster, l'ostrica d'oro. Marchio registrato. Anche i non intenditori avvertono un'accentuata sapidità al palato, una carne più soda delle cugine francesi e una maggiore persistenza.
COLTIVAZIONE BREVETTATA
Ma il biologo ferrarese ha anche messo a punto un particolare sistema di coltivazione. Sui fondali le ostriche rischierebbero di essere contaminate da batteri che vivono nella sabbia. Così Turolla ha brevettato un sistema di corde collegate a pali piantati sul fondo e a boe che seguono l'andamento delle maree. Alle funi sono appesi cesti di plastica immersi nell'acqua, anch'essi brevettati, dove i molluschi si sviluppano. I cesti, con un diametro di circa 60 centimetri e un'altezza di 20, sono legati uno sull'altro cinque alla volta; ognuno contiene un centinaio di conchiglie. «Ci vogliono come minimo due anni prima che un'ostrica sia pronta», spiega Vadis Paesanti, vicepresidente di Fedagripesca-Confcoop dell'Emilia Romagna.
Paesanti è un pescatore di Gorino ma anche guida turistica, sommelier, golfista. Un cantore di queste valli padane. La cura delle ostriche d'oro è affidata a due soci della sua cooperativa. Vanni Cazzola è un «gorante» doc, asciutto nel fisico e nelle parole. Laurent Sitterlin, «monsieur» per gli amici, è un alsaziano che anni fa ha conosciuto l'amore in vacanza da queste parti e non se n'è più andato. «Ma in patria non mi occupavo di ostriche», ammette in una lingua che ha l'accento di Chioggia più che di Strasburgo. La coop Sant'Antonio è una delle maggiori alle quali sono assegnati tratti di mare in concessione per l'acquacoltura: una statuetta del santo frate è piazzata su una piccola palafitta inghirlandata al confine tra la sacca di Goro e il mare aperto.
LEVATACCE QUOTIDIANE
All'alba, come tutti i maschi di queste parti con più di 15 anni, Sitterlin e Cazzola escono a raccogliere la loro quota di vongole veraci e cozze fissata dalla coop secondo la stagione e gli ordini previsti. Guadagnato il pane quotidiano, intorno alle 10 non si siedono al bar per tirare a sera, come molti loro colleghi, ma prendono un'altra barca e vanno a curare le ostriche. La coltivazione è 6 miglia al largo, di fronte al Lido delle Nazioni. Dal mare spuntano le estremità dei pali che disegnano corridoi dove passano le imbarcazioni e filari ai quali sono appesi i cesti sommersi. Il loro scafo impiega tre quarti d'ora per arrivarci. «Nelle giornate più limpide si vede dal Conero alle Dolomiti», garantisce Paesanti.
«Quasi tutto il lavoro è fatto a mano in mare», spiega Cazzola. Il novellame nato al Crim è contenuto nelle «zanzariere», sacchetti traforati chiusi nelle ceste. Man mano che crescono, le ostriche vengono tolte dalle zanzariere, dove rimangono le conchiglie di taglia più piccola, e messe nei contenitori più grandi. E più avanti smistate ancora in modo che abbiano sempre lo spazio adeguato per maturare. Sono fasi di lavorazione che si ripetono ogni giorno uguali, quasi una liturgia.
Si srotola in acqua un rampino, il rampino aggancia la corda con le ceste, la corda scorre su un verricello che a poco a poco la fa emergere dal mare. Il cestone viene issato, i singoli cestelli sganciati e aperti. Una prima pulita con acqua di mare, una spazzolata con una testa di scopa per controllare che la conchiglia sia sana. Le ostriche vengono lavate una seconda volta mentre dalle griglie dei cesti vengono eliminate alghe e fibre marine. «È fondamentale tenere sempre pulito il contenitore sottolinea Cazzola - e questo richiede lavoro doppio, per esempio, rispetto a coltivare una triploide francese».
PRONTE DA MANGIARE
Sitterlin estrae dalla tasca il coltellino, apre un'ostrica, stacca il mollusco dalla conchiglia, assaggia. Non ci va nemmeno il limone. Quelle dell'Adriatico si possono mangiare subito perché le acque in cui vengono allevate sono classificate di categoria A, non servono altri trattamenti. «In questa bellissima avventura s'incontrano un bravo biologo, la nostra grande passione, un tratto di mare che mescola la salinità con l'acqua dolce del Po e un prodotto esclusivo», sorride «monsieur». Le ostriche non ancora pronte per finire nei ristoranti o sui banchi degli aperitivi tornano in acqua, la barca si sposta di qualche metro, tira a bordo un altro cesto, e avanti. L'anno scorso la produzione di Goro è stata di 100 quintali tra Golden e Crassostrea gigas, l'ostrica concava cosiddetta «quattro stagioni», dalla conchiglia perlacea, la più diffusa in Europa.
Quest'anno le previsioni sono di raddoppiare: una piccola nicchia contro la produzione francese di 140mila tonnellate e il consumo italiano di 8mila tonnellate importate da Francia, Spagna e Olanda. «I francesi c'invidiano le golden», assicura Sitterlin.
Una mano potrebbe dargliela lo Stato: «Applica l'Iva al 22 per cento protesta Paesanti anziché il 10% che grava sugli altri prodotti ittici o di acquacoltura. In Francia l'Iva è al 6 e in Portogallo al 4 per cento, altro che bene di lusso. Con queste tasse non si aiuta certo l'ostrica italiana a consolidarsi».
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