Sorpresa, Hezbollah sconfitto dai moderati filo-occidentali

Hezbollah stavolta ha sbagliato tutto, dai calcoli ai risultati. Ha perso le elezioni che era certo di dominare e a tarda notte si è ritrovato costretto ad ammettere l’umiliante sconfitta inflittagli dalla coalizione di governo del «14 marzo». Una vittoria resa possibile dall’imprevista corsa alle urne dei libanesi, preoccupati dal rischio di ritrovarsi trasformati in una provincia iraniana. «Abbiamo perso le elezioni e accetteremo il risultato», ha dichiarato poco dopo mezzanotte una fonte della «coalizione dell’8 marzo» che riunisce il Partito di Dio, gli sciiti di Amal e i sostenitori del generale Michael Aoun, il voltagabbana cristiano passato tra le file dei suoi nemici per inseguire il sogno della presidenza. E subito dopo la coalizione del 14 marzo guidata da Saad Hariri, figlio del premier ucciso nel 2005 formata dal principale partito sunnita, dai drusi di Walid Jumblatt e dalle forze cristiane di Amin Gemayel e Samir Geagea annunciava una vittoria di stretta misura.
La grande affluenza, con percentuali del 53 cento rispetto al 45,8 del 2005, fa capire l’importanza di queste consultazioni. La minacciata vittoria del Partito di Dio e dei suoi alleati avrebbe regalato a Teheran il completo controllo di un avamposto affacciato su Israele e di un porto strategico. Il ritorno dopo 14 secoli della flotta persiana nel Mediterraneo avrebbe segnato una drammatica escalation nello scontro tra Iran e Stati Uniti e un fallimento della nuova strategia americana inaugurata dal discorso del presidente Barack Obama al Cairo.
I grandi decisori di questo voto sono stati i cristiani, la comunità a cui la Costituzione garantisce la metà dei 128 parlamentari, malgrado rappresenti il 40 per cento degli elettori. Quel privilegio, garantito dal mancato svolgimento di censimenti da 80 anni, li ha trasformati nell’autentico ago della bilancia. La distribuzione su base settaria dei candidati rendeva praticamente automatica l’attribuzione di circa 100 seggi e trasformava le roccheforti maronite a nord di Beirut nel cuore della battaglia per il controllo del Paese. E lì si è infranto il sogno di Aoun, il vecchio generale che alleandosi con Hezbollah e i nemici siriani sperava di costringere alle dimissioni il presidente Michel Suleiman eletto un anno fa e prenderne il posto. Ma la corsa alle urne dei libanesi e i ripensamenti dell’ultimo minuto di molti cristiani hanno ancora una volta messo fine ai sogni del “Quisling” cristiano, imponendogli l’ennesima umiliante sconfitta.
I risultati elettorali non chiudono comunque i giochi libanesi. Il cavillo, imposto lo scorso anno con la forza delle armi da Hezbollah che prevede la formazione di un governo d’unità nazionale con un terzo dei ministri per la minoranza, continuerà a garantirgli il diritto di veto e a immobilizzare il Paese.
Ma il vero colpo grosso potrebbe metterlo a segno questa settimana l’inviato di Barack Obama George Mitchell, spedito a Damasco per convincere il regime di Bashir Assad a chiudere ogni rapporto di collaborazione l’Iran.

Il ribaltamento di fronte prevederebbe il sacrificio di Beirut e il suo ritorno sotto l’influenza di Damasco, ma spezzerebbe l’asse iraniano sciita segnando la prima vittoria della nuova strategia anti iraniana della Casa Bianca.

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