«Sono sempre ateo, grazie a Dio». Nonostante la sorniona battuta, pronunciata in un'intervista a L'Express del 1960 Luis Buñuel, educato a Saragozza in un collegio di gesuiti, era non poco ossessionato dai temi religiosi. Tanto da dedicare anche un breve film, Simón del desierto, a Simeone, l'inventore dello stilitismo, l'ascesi sulla colonna (dal greco stylos), a cui Laura Franco dedica ora un bel libro (Al di sopra del mondo, Einaudi). Nel film, il santo, da cui Buñuel è innegabilmente attratto, si rivela parecchio ambiguo: un po' buffone, un po' mitomane, dall'alto della sua colonna benedice capre, grilli e perfino un frammento di verdura rimasto incastrato tra i denti, ma sarà alla fine sconfitto dal maligno.
Lo stilitismo nasce in Siria, dove i monaci eremiti erano molto inventivi nell'escogitare supplizi da autoinfliggersi. Da chi, come Marciano, si era imprigionato in una cella talmente minuscola da non poter drizzare il corpo né allungare le gambe, a Taleleo, che si era recluso in una gabbia, «ed era costretto a stare curvo con il viso contro le ginocchia»; fino, appunto, a Simeone, che nel 412 d.C. aveva deciso di stabilirsi su una colonna. Di altezza inizialmente modesta, poi sempre più alta, fino ad arrivare a diciotto metri. Dalla colonna, geniale modo per sfuggire ai propri simili, Simeone riesce a convertire molti pagani, anche grazie alle spaventose, ripugnanti angherie che il suo corpo, provato da veglie e digiuni, riusciva a sopportare: come il tumore ad una gamba, che era imputridita rapidamente e da cui era caduta a terra un'esorbitante quantità di vermi, ma aveva avuto l'unica conseguenza di far resistere lo stilita in posizione eretta, su un piede solo, per due anni.
Altri stiliti di grande notorietà sono Alipio, che aveva scelto come sede del suo eremitaggio un cimitero abbandonato, tra tombe e spiriti maligni: un luogo così terrificante da tenere a distanza di sicurezza i suoi concittadini, che gli davano del pazzo da lontano, facendogli il più grande favore che si possa concedere a uno stilita: lasciarlo solo. Tra le molte qualità di Alipio, c'era quella di essere aperto al mondo femminile: sua madre si era stabilita in una tenda piantata ai piedi della colonna; Eufemia, un'aristocratica, aveva abbandonato le sue ricchezze per far parte di un gruppo di asceti chiusi dentro minuscole celle alla base del pilastro del santo; Maria, la sorella, viveva nel monastero femminile istituito dallo stesso Alipio.
Gli stiliti attraggono e respingono molto anche i moderni, come racconta Laura Franco nell'ultima, interessante sezione del libro: Gibbon, ad esempio, li definiva «infelici, esuli dalla vita sociale» e prede della superstizione, «fanatici che torturavano se stessi»; Anatole France nel romanzo Taide racconta polemicamente la strenua, vana lotta di Pafnuzio, che per liberarsi del desiderio della prostituta pentita Taide si accomoda su una colonna con una testa di un'inquietante divinità femminile dall'enigmatico sorriso, gli occhi allungati e le corna bovine. Altri, come Hugo Ball, che nel 1916 appare sul palco del Cabaret Voltaire vestito da vescovo, sono affascinati dagli stiliti, anche in nome di una vagheggiata «teocrazia-mistico anarchica» fondata su un dominio del puro spirito. Alcuni, come Rilke, descrivono lo stilita «parlare con il cielo immenso, e le sue urla si abbattevano su tutti come urlasse in faccia ad ognuno».
Ma è Kostas Varnalis, forse, a disegnare il più magico, controverso ed eretico tra i moderni stiliti: in cima alla colonna per sfuggire alla miseria degli umani, lo stilita di Varnalis sa anche, però, che l'uomo non può salvarsi da solo, e vuole la «Tentazione, la mia inseparabile». Perché «l'ingiustizia», che «si nutre di sangue», deve essere «annegata nel sangue», e solo «quando la libertà dell'altro sarà la tua libertà, non avrai più bisogno di nessun Dio».
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