Spagna ai piedi del nonno «Aragones non ci lasciare»

Stampa e tifosi pentiti dopo le critiche e la diffidenza: «Ma io non cambio idea»

nostro inviato a Vienna

«Allora Luis, che ne è di quella storia?». Il re, Juan Carlos, glielo ha chiesto ancora una volta. Anche l’altra sera, quando lo ha abbracciato e si è congratulato negli spogliatoi dello stadio di Vienna. Tutti stupiti per tanta confidenza. «Ci conosciamo da tempo» ha semplificato Luis Aragones, il grande vecchio di una storia nuova: quella di una Spagna rinata anche nel calcio. Ma Juan Carlos si riferiva ad altra storia. Quella che fa sorridere entrambi quando si incontrano. Un giorno, il re va a premiare il ct spagnolo con una medaglia onorifica. Luis ringrazia, ma poi soggiunge con un furbo sorriso. «Maestà, non sarebbe stato meglio se mi avesse regalato un po’ di danaro?». Juan Carlos sa essere uomo di mondo ed ha apprezzato l’umorismo, venato di realismo, di quel vecchio burbero della panca che tutti ridefiniscono il saggio di Hortaleza, la cittadina vicino a Madrid dove è nato. «Un tipo difficile da spelare», raccontano ex compagni di gioco ed ex compagni di viaggio calcistico.
Ma è anche vero che per diventare ct della Spagna, Aragones rinunciò a stipendi ben più sostanziosi offerti dal Maiorca e dal Levante. S’è tenuto stretto i 600mila euro garantiti dalla federazione per arrivare al finale della storia. Che potrebbe essere anche quello vissuto domenica. E infatti, prima del match con l’Italia, Aragones s’è lasciato andare alla profezia che attanagliava il suo cuore: «In ogni caso sarò ricordato per questa partita, nel bene o nel male». Azzeccato.
L’altra sera la tv spagnola ha battuto ogni indice di ascolto: 15 milioni di spettatori appesi a un rigore, il 79% di tv sintonizzate sulla sfida. Luis è diventato Doctor Luis o Luis El grande, non più Luis il nonno, detto con quel pizzico di sprezzante sarcasmo che l’accompagnava da un paio di anni. Luis, è vero, ha i capelli bianchi. Ha l’età: 70 anni fra un mese e non li porta neppur benissimo. Ha undici nipoti. «E ieri uno di loro mi ha toccato il cuore», ha raccontato. Però non è il tipo da poltrona e bimbo sulle ginocchia. E neppure quel «rimba» che ha fatto infuriare la Spagna quando ha deciso di lasciare a casa Raul, il figlioccio calcistico dell’intero Paese. Luis è solido, burbero, avveduto, gran personalità dentro e fuori dello spogliatoio, stile diretto nella parola, fede nel gruppo, nel valore sentimentale del collettivo. Ha lottato e vinto la sua battaglia e ora se ne andrà. Non c’è feeling con il presidente federale. Sembra di sentire storie nostre. «Ma non voglio parlare di questo argomento, non c’è nulla di nuovo. Smettiamola! Non faccio marcia indietro», ha ripetuto ai giornalisti che chiedevano se ci avesse ripensato.
Ieri nei siti era tutta una preghiera. «Luis cambia idea!». «Luis devi avere pazienza con questo manipolo di ingrati». «Del Bosque impara come si fa». Vicente Del Bosque è il tecnico che ha condotto il Real Madrid a grandi successi, senza avere fascino e carisma di Capello e Schuster, l’uomo destinato a prendere il suo posto a conclusione dell’europeo. Lo zio Luis ha già preso accordi con il Fenerbahce, la squadra turca che perderà Zico. Sarà la sua gita fuori porta, lui abituato a vivere tutta una storia dentro i confini spagnoli. Anche se non s’è mai negato l’azzardo. Quand’era all’Atletico Madrid passò, da una sera alla mattina, dal ruolo di giocatore a quello di allenatore. Ma ora che la Spagna ha sconfitto una maledizione, ora che tutti ringraziano le mani d’oro di Casillas, coccolano il trio dei tenori (Silva-Villa-Torres), hanno negli occhi l’ultimo rigore di Fabregas, Aragones sa di potersene andare in pace con se stesso.

Ha battuto ogni record di successi (37), non perde dal novembre 2006, ha centrato dieci vittorie di fila, come non è riuscito ad alcun altro ct spagnolo. Già, e allora il vecchietto dove lo metto? Per ora nell’album di famiglia dei re di Spagna.

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