nostro inviato a Torino
Per dirla nel gergo aspro dei pentiti, quelle di Gaspare Spatuzza, detto ’u tignusu, sono tutte minchiate. Cominciamo dalla fine, dalla collaborazione a rate della bestia redenta che ha ammesso d’aver ammazzato 40 cristiani, partecipato a sei stragi, squagliato nell’acido donne e bambini. La nuova legge sui collaboratori di giustizia impone un tempo massimo di sei mesi per espiare tutti i peccati. Bene. Nell’aula del tribunale di Torino, Gaspare Spatuzza ammette d’aver iniziato a parlare (informalmente) con i magistrati fiorentini in più «colloqui investigativi» che le carte processuali cristallizzano sul finire degli anni Novanta. Poi di avere fatto altrettanto, più volte, anche col procuratore nazionale Piero Grasso. Di tutti questi «colloqui», trasmessi alle procure di Palermo e Caltanissetta, non c’è però traccia nei processo sulle stragi del ’92. Come se non bastasse, Spatuzza riferisce d’aver risposto a domande pure ai pm Milano (come anticipato ieri dal Giornale) e addirittura a quelli di Reggio Calabria: nessuno, nemmeno il presidente del processo Dell’Utri, ne sapeva niente. Quel che ci è dato di sapere, attraverso la deposizione di Spatuzza, è che ai pm di Firenze lui inizia a fare il nome di Silvio Berlusconi solo un anno dopo l’inizio della sua collaborazione, e cioè fuori tempo massimo. Giustifica il ritardo sostenendo che aveva paura del Cavaliere prossimo a prendere il potere. Ieri s’è scoperto, che, zitto zitto, di Berlusconi aveva invece fatto cenno il 17 novembre 2008 a Caltanissetta, discutendo dei problemi che stavano a cuore ai Graviano e che dovette risolvere personalmente sconfinando in un quartiere off limits di un’altra famiglia mafiosa («fu quasi un colpo di Stato»). Problemi legati all’installazione di cartelloni pubblicitari nella zona di Porta Nuova dove, a detta di Spatuzza, comandava Mangano. Posto che a quei tempi Mangano ancora non esercitava il suo potere in quel quartiere perché il capomandamento era invece Cancemi, l’exploit di Spatuzza che punta a teorizzare inesistenti rapporti finanziari fra Cosa nostra e Berlusconi la pubblicità (che è roba locale, non nazionale), Mangano (che non c’era) e Dell’Utri, si ritorce contro il pentito. E così lui che non sa niente dei politici e della politica, dice di temere il ministro Alfano «perché era un soggetto che curava i circoli di Forza Italia in Sicilia». Lui che non sapeva chi diavolo fosse Berlusconi, lo teme più di Alfano perché «nel momento in cui inizio i primi colloqui con i magistrati me lo ritrovo come primo ministro», quando così non è visto che al tempo dei «primi colloqui» governava ancora Prodi. A Firenze, invece, le carte raccontano che Gaspare non parla mai di Silvio per un anno di seguito. Inizia a vuotare il sacco, formalmente, il primo luglio 2008. Viene sentito di nuovo il 17 luglio, poi il 28 luglio 2008, ancora il 10 settembre 2008, quindi il 14 settembre e il 17 dicembre dell’anno scorso. Mai un accenno a Silvio o a Dell’Utri. Dice sempre così: «Non conosco i politici, non capisco niente di politica». Oppure: «Non posso sapere, perché Graviamo non me lo disse, chi fosse il nostro interlocutore». Dopodiché, un bel giorno, in straordinaria coincidenza con l’ok ricevuto per il programma di protezione, «senza barattare niente con lo Stato» (nuova vita, nuova identità, niente carcere a vita, stipendio, lavoro, benefit vari) il criminale che nelle lettere al vescovo dell’Aquila si immedesima in San Paolo, viene folgorato sulla strada che porta a via Veneto dove insiste il bar Doney. Il locale dove il boss Giuseppe Graviano, parlando della strage allo stadio Olimpico (prevista per il 31 ottobre del 1993), gli avrebbe sussurrato che «tutto è chiuso bene coi politici, abbiamo ottenuto quello che cercavamo» spiegandogli, a lui che di politica non capiva niente, che i referenti istituzionali sarebbero stati Dell’Utri e Berlusconi. Per la cronaca siamo a fine ’93, Forza Italia non è ancora nata. Riscontri diretti? Zero. I boss Giuseppe e Filippo Graviano, sentiti a verbale, e quindi messi a confronto con il loquace Spatuzza, smentiscono l’ex collega. Idem fa il boss Lo Nigro, quello che avrebbe accompagnato Spatuzza a Campofelice di Roccella dove Graviano avrebbe accennato ai big di Milano: «Ma che dici, Gaspare! Non ci siamo mai andati lì». Spatuzza però è talmente sicuro che lo ribadisce da dietro il paravento bianco: «L’incontro avvenne alla fine del ’94». Quando gli si fa notare che i Graviano sono stati arrestati a gennaio dello stesso anno, balbetta e si corregge: «no, no, fine ’93, è stato un lapsus». Seguendo i precetti della scuola del pentitismo d’accatto, Spatuzza fa impressione perché ripete, alla lettera, a memoria, i passaggi trascritti delle sue verbalizzazioni. Usa le stesse frasi, identiche le espressioni, virgole e virgolette incluse. E quando le domande escono dai binari previsti, sbanda. Gli chiedono di descrivere il bar Doney, e lui lo descrive com’è oggi e non com’era all’epoca. Al Giornale la proprietà del locale e il vecchio barman hanno confermato che allora vi era una sola porta, via Veneto angolo via Sicilia, e non due come riferisce Spatuzza. Dettagli? Sarà, ma sono fondamentali per riscontrare la veridicità di questo signore, perché è in questo bar che Graviano (che smentisce) dopo avergli parlato dell’attentato allo stadio Olimpico gli confessa che c’era di mezzo «il compaesano» (Dell’Utri) e pure Berlusconi. Poi, forse distratto, Spatuzza non raccoglie e non fa sua una domanda suggestiva del procuratore generale riguardo a un Bar Doney che c’è anche a Brancaccio. Spatuzza parla di «anomalie» nel comportamento di Giuseppe Graviano, e da ciò «deduce» che c’è sotto qualcosa di grosso. Perché se come gli dirà Filippo Graviano (che smentisce) «a questo punto se non arriva niente da dove deve arrivare», lui «intuisce» che Cosa nostra vuole regolare i conti con chi non ha mantenuto certi patti.
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