Non posso darLe il benvenuto alla Casa Bianca per il semplice motivo che Lei nella sala ovale non metterà piede prima del 20 gennaio. Di qui a quel giorno continuerà ad abitarci George Bush, che ormai sa fin troppo bene quali problemi attendano l'inquilino di quella villetta sulla Pennsylvania Avenue e quanto sia difficile risolverli.
Lei, come successore, potrebbe farsi anche qualche illusione, magari solo sullo slancio del primo momento e nonostante che si sia circondato (con buon anticipo nel caso che Lei si chiami Barack Obama) di consiglieri capaci ed esperti. I «cento giorni» alla Roosevelt sono il sogno di ogni nuovo presidente, e magari è possibile realizzarlo in grande o piccola parte in campo interno e perfino dell'economia, nonostante la gravità della crisi che Lei ha ereditato; o forse proprio per quello.
Ma in politica estera i «cento giorni» se li può scordare: i problemi che dovrà affrontare hanno ritmi decennali qualche volta secolari se non addirittura millenari. Il caso estremo è naturalmente il Medio Oriente, dove si discutono frontiere disegnate col sangue molto prima di Cristo. Lei dovrà cercar di far ripartire i negoziati fra Israele e i suoi vicini, corredandoli magari di una «mappa stradale» un po' più aggiornata. Non le faciliterà il compito, tanto per cominciare, la quasi coincidenza fra la Sua vittoria e le elezioni dello Stato ebraico, il cui risultato è in bilico e che richiedono lo sforzo di cercar di andare d'accordo sia con il governo moderato dei successori di Sharon sia con i «duri» raccolti attorno a Netanyahu.
Nella migliore delle ipotesi ci vorrà pazienza e occorrerà intanto riesaminare i rapporti con quelli che stanno dall'altra parte della barricata, dalla Siria in giù. In Irak la situazione è migliorata sul terreno ma i problemi politici rimangono e il tempo potrebbe stringere: soprattutto se Lei si chiama Barack Obama e ha promesso esplicitamente di portare a casa i soldati Usa al più presto. In Afghanistan va sempre peggio da mesi, e qui si inserisce anche il tema dei rapporti con l'Europa. La chiamano «ricucitura», personalmente preferisco un altro termine: «strategia della attenzione», di una maggiore attenzione.
Lei, caro Presidente, non dovrà partire proprio da zero. Ne è passata di acque dalla rottura provocata dalla guerra in Irak. Una parte del lavoro l'ha già fatto il suo predecessore Bush negli ultimi anni, assieme a Sarkozy successore di Chirac e alla Merkel erede di Schroeder. Ma far di meglio è più che mai necessario sullo sfondo della crisi finanziaria e della recessione mondiale. Infine c'è la Russia con i suoi vicini deboli, spaventati dalle nostalgie imperiali di Putin e da queste in qualche caso indotti a cercare di proteggersi legandosi il più possibile all'America, o legando l'America a loro.
«Perdere la Cina» fu l'ansia e il capo di accusa dei presidenti del secondo dopoguerra da Truman
a Eisenhower. Perdere la Russia è il rischio con cui Lei dovrà confrontarsi, quali che siano le Sue intenzioni e i Suoi impulsi anche in questo non vi assomigliate troppo, caro Presidente McCain e caro Presidente Obama.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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