Guillaume Faye (1949-2019), intellettuale eccentrico, dalla produzione magmatica e quasi indefinibile, è tanto citato quanto poco letto, soprattutto per la scarsità di traduzioni in italiano. Tranne Il sistema per uccidere i popoli ed Archeofuturismo in giro si trova ben poco. Tenta di colmare questa lacuna Adriano Scianca che raccoglie in Dei e potenza (Altaforte Edizioni, pagg. 290, euro 17), i più significativi saggi, articoli e interviste degli ultimi quarant'anni.
Nonostante i suoi interessi gravitino intorno a temi e riferimenti del mondo identitario (critica della società dei consumi e dell'occidentalismo, nazionalismo continentale, rivoluzione conservatrice, Nietzsche, mito indoeuropeo, paganesimo, questione della tecnica), a segnalare la prima svolta di Faye è la rottura con la nouvelle droite. Diversioni ininterrotte che lo portano a entrare persino nel mondo dello spettacolo, come conduttore di un programma radiofonico di scherzi e, per sua stessa ammissione, come attore in un film porno. Passata anche questa fase, riprende con vigore l'attività di conferenziere e di scrittore fino agli ultimi mesi della sua vita, contrassegnati dal cancro.
Il sistema per uccidere i popoli, libro uscito nel 1981, rappresenta al meglio la parte destruens del suo pensiero. Mette alla berlina la società globale, le sue rappresentazioni massificanti e uniformanti e l'ideologia egualitaria occidentale strutturate come un vero e proprio sistema, nonostante la narrazione generale provi a raccontarci altro: «L'opinione pubblica è l'alibi. Il Sistema la utilizza per dimostrare quanto è democratico, quanto si fondi sul consenso e l'assenso generale». Sotto la cappa di un cosmopolitismo tollerante staremmo infatti assistendo alla distruzione di ogni specificità e all'affermazione di un'ideologia mondiale «che si aggira nei corridoi delle istituzioni internazionali e si esprime nei programmi di tutti i partiti politici importanti del pianeta».
Con Archeofuturismo, Faye fa un passo in avanti e tenta di trovare una via d'uscita. L'idea è quella di coniugare valori medievali, concetti come gerarchia e virilità, al progresso scientifico; gli archetipi al prometeismo tecnologico. Un simile passo sarebbe possibile per due ordini di motivi che si evincono proprio dalle pagine di Dei e potenza: la riconquista europea attraverso un conflitto di proporzioni enormi che dovrà coinvolgere tutto il continente e la rinascita della figura del rivoluzionario. Secondo Faye, la modernità volgerebbe infatti al termine e con essa i suoi feticci liberali e umanitaristici. Il nostro tempo non si esaurirebbe nella civilizzazione liberale diretta da uno Stato universale, il villaggio globale profetizzato da MacLuhan, ma anzi aprirebbe una fase in cui popoli e identità etniche saranno in competizione: «I popoli vittoriosi saranno quelli che rimarranno fedeli a, o torneranno a, valori e realtà ancestrali - che sono culturali, etiche, sociali e spirituali - e che al tempo stesso domineranno la tecnoscienza. Il XXI secolo sarà quello in cui la civilizzazione europea, prometeica e tragica, passerà attraverso una metamorfosi o si avvierà all'irrimediabile tramonto». Sarebbe allora questo il momento di riprendere i valori antichi, senza però tentare di riproporli alla lettera, perché si sono modificati nel corso dei secoli, e ciò potrebbe essere fatto sotto il doppio segno di Marte, Dio della guerra, ed Efesto, il dio che forgia le spade, il signore della tecnologia dei fuochi ctoni.
E qui l'altro punto. Per Faye, l'idea di rivoluzione, abbandonata dagli intellettuali progressisti oramai ridotti a guardiani del potere, non sarebbe nemmeno quella prospettata dagli intellettuali di destra la cui azione pare sempre esaurirsi in pose estetizzanti. La figura del ribelle, più o meno sul modello di Dominique Venner, morto suicida nella Cattedrale di Notre-Dame nel 2013, gli appare inservibile. Il ribelle aspira a essere minoritario, perso nel sogno letterario, appagato dall'auto-esilio e mai pronto alla lotta. Intellettuali come Cioran, Debord o Baudrillard (che definisce «ribelli pessimisti»), o come Céline, Jean Mabire e Venner («ribelli gioiosi») si baloccherebbero nella malsana idea che a loro tocchi solo seminare.
Faye li equipara a simulatori di dissidenza, funzionali a un neo-totalitarismo che necessita e quasi alimenta questi falsi concorrenti. Ecco perché auspica l'entrata in scena del rivoluzionario il quale - a differenza del ribelle - considera le idee come dei mezzi e non dei fini, che quindi hanno una veridicità solo se subordinate alla loro efficacia. E sul campo, di progetti rivoluzionari ne identifica solo due, entrambi archeofuturisti ma incompatibili: quello musulmano (il «partigiano» senza frontiere, per dirla con Schmitt) che mira alla conquista planetaria e con lo stesso ruolo del rivoluzionario marxista del XX secolo, e quello che opera per la riconquista europea.
Al fondo, pur in un quadro analitico ricco di stimoli e provocazioni, restano tuttavia dei nodi irrisolti.
In primo luogo, non si capisce come sia possibile nella più banale ordinarietà delle nostre vite conciliare istanze archetipe, valori passati di moda e il prometeismo della civiltà tecnica. Poi, per quale motivo una società globale e massificante, arresasi al conformismo, dovrebbe all'improvviso rivoltarsi dalle fondamenta. E infine: da dove dovrebbe saltar fuori questa nuova figura di rivoluzionario?
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