Rispetto ai giullari di corte e ai predicatori che ingolfano i media e fanno della sociologia spiccia un mestiere, Franco Battiato è stato ed è di molte spanne superiore. Ne avevamo avuto avvisaglie negli anni Settanta, quando i cantautori impegnati surrogarono la canzone leggera con temi sociali e politici e la resero tanto noiosa da sfiorare il soporifero, mentre lui, «viaggiatore anomalo in territori mistici», incominciò a strutturare uno stile unico e contenuti alternativi.
Se infatti quelli «impegnati» disegnano scenari, prospettano soluzioni pratiche, ma restano legati alla materialità di un livello tutto orizzontale, Battiato, che è musicista classico, ma anche sperimentatore d'avanguardia e operista, pur avendo all'inizio di carriera collaborato con alcuni di loro, non ha masse da educare e parla all'individuo. Da qui la differenza abissale con questa cricca cantautorale che prima ha ceduto il passo all'idea palingenetica della società e poi si è autoconvinta di essere il faro di questa renovatio. Nel suo caso, la ricerca sarebbe questione estremamente personale, privata. Cammino di meditazione, di studio e di solitudine che precede la ricerca di Dio che è anelito lontano, come recita in Lode all'Inviolato o ne L'ombra della luce: «Perché le gioie del più profondo affetto, o dei più lievi aneliti del cuore, sono solo l'ombra della luce».
Parla al singolo che deve rinnovarsi in ogni fase della esistenza, anche nella vecchiaia («e il mio maestro m'insegnò com'è difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire») e lo fa evocando. A volte stimolando induzioni attraverso frasi apparentemente fuori contesto, in cui abbondano citazioni, nonsense, intuizioni e rime fantasiose, altre addirittura utilizzando strumenti elettronici che parrebbero più adatti alla greve espressione artistica contemporanea.
Un artigiano della parola che si muove in una dimensione onirica che acquista un senso nel tutto, dove i fumi sciamanici che sgorgano da pentagrammi e testi accordano questa finta vaporosità e l'apparente frivolezza lessicale con una delineata funziona maieutica. Per quanto possibile nello spazio limitato di pochi minuti, la canzonetta diventa grimaldello che apre all'ignoto, o almeno a ciò che era noto agli abitatori di un tempo lontano.
Ecco perché Camminando con le aquile, sottotitolo scelto da David Nieri per il suo ultimo libro, Franco Battiato (Edizioni Clichy, pagg. 136, euro 7,90) sembra quello più adatto. Gli uccelli (l'aquila in modo particolare) sono una delle simbologie più sviluppate e ricorrenti («le aquile non volano a stormi»), e rappresentano un ponte fra Oriente e Occidente, Nord e Sud, la prospettiva terrena e quella soprannaturale («voli imprevedibili ed ascese velocissime, traiettorie impercettibili, codici di geometria esistenziale»). Condivisibile anche la chiave di lettura di Nieri che inquadra Battiato nella categoria dei profeti antimoderni. Lettura avvalorata dal fatto che si conosce poco della vita privata e qualche ruzzolone pubblico, come l'adesione alla sciagurata giunta siciliana di Rosario Crocetta, potremmo annoverarlo come una eccezione.
Le diverse fasi della carriera, seppur con caratteristiche proprie e definite, a leggerle adesso, paiono infatti senza soluzioni di continuità e con un livello di intensità qualitativo eccelso. Da Giusto Pio a Manlio Sgalambro, è un elevarsi oltre le apparenze, dove «niente è come sembra, niente è come appare», e sempre alla ricerca di una dimensione dell'essere che trascende il tutto, anche e soprattutto il rumore di una quotidianità che ci sovrasta con «paura, stress, sindrome da traffico, ansia, stati emotivi, primordiali malesseri, pericoli imminenti» (Il vuoto, 2007).
Dunque, quello di Battiato è un itinerario da profeta antimoderno, segnato sin da quel 1979, quindi dieci anni prima della caduta del Muro, quando, incrociando tra gli altri Guénon e Gurdjieff, intravede la deriva materialistica occidentale e pubblica Il Re del mondo e L'era del cinghiale bianco (il cinghiale è, nella mitologia dei Celti, animale sacro, simbolo dell'autorità spirituale in contrapposizione all'orso, emblema del potere temporale).
E le sue tristi previsioni in Tramonto occidentale (qui torna Spengler) del 1983, dove la poetica visionaria decritta un mondo passivo privo di volontà di cambiamento, le racconterà di nuovo in Shock in My Town del 1998, dove l'incubo di una civiltà regredita allo stato primitivo fa il paio con il progresso tecnologico e l'imbarbarimento dei costumi.
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