Brullo, visioni di un «bianco» assoluto

Andrea Caterini

Si scrive un libro per imparare di nuovo a scrivere. Si scrive un libro per imparare di nuovo una lingua. Ancora: si scrive un libro per imparare, ogni giorno, ogni ora, a vivere. Lo pensavo mentre leggevo l'ultimo libro di versi di Davide Brullo, Abbecedario antartico (Raffaelli Editore, pagg. 46, euro 12), sicuramente condizionato da questo titolo così enigmatico. Se quell'«abbecedario» è certamente un manuale di lettura, l'«antartico» che lo specifica si pone non soltanto come un luogo, uno spazio, ma pure come un'immagine. Come se Brullo avesse voluto coniugare il risultato di una ricerca che se è iniziata con la scoperta di una lingua, poi, successivamente, quella stessa ricerca si è tramutata in una visione. E la visione è uno spazio bianco, non disumano o inumano , ma disabitato, o abitato da già risorti. Terrestre e celeste insieme, verrebbe da dire uno spazio bianco che, più che latteo, ha sfumature d'azzurro. Lì, in quei ghiacci impenetrabili, che impediscono ai ricordi di accumularsi, Brullo ha fissato il suo desiderio d'assoluto, «ci spinge al freddo un desiderio/ di assoluzione e di assoluto».

Difficile leggere oggi una poesia tanto vertiginosa, una poesia così fedele a se stessa, «vorrei vivere nel bagliore del sì». Brullo è legato visceralmente, ma sarebbe più corretto dire spiritualmente, a una poesia che è anche rivelazione, annuncio, profezia di cose già conosciute ma dimenticate, nascoste. Per questo i suoi versi hanno tanti simboli, perché la realtà intera si nasconde, è un enigma, o un'assenza, una mancanza che si vuole ritrovare, «nel gelo la luce non migra e ogni/ vita ha l'astuzia di un paradigma». In questo senso Abbecedario antartico non è una semplice raccolta di poesie scritte nel corso del tempo e ordinate in una struttura a posteriori, ma un libro con una sua unità specifica, potremmo chiamarlo un poema, se non fosse che mi sembra più esatto tornare a parlare del risultato espressivo di una ricerca, o di una «migrazione», per stare ai termini dell'autore.

Ma appunto, verso dove andiamo, se non, ogni giorno, in direzione della nostra vita? Cosa si cerca se non quello che già siamo e che vogliamo conoscere, comprendere, vedere? Cosa vogliamo scoprire se non la lingua (e il nostro «nome») che ci precede? «basta che gli occhi defluiscano tra le dita/ e venga dettato un nome perché esista/ l'al di là l'Artico è un antefatto».

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