Bulgakov e Molière, "lupi" alle prese col potere

Il russo narrò la "Vita" del francese in una biografia che fu censurata: in lui rivedeva il proprio destino

Bulgakov e Molière, "lupi" alle prese col potere

Fra i lettori e gli studiosi di Michail Bulgakov è ben nota la Lettera a Stalin del marzo 1930, con la sua lucida difesa della libertà di stampa («se un qualsiasi scrittore pensasse di dimostrare che a lui non è necessaria, sarebbe come un pesce che dichiarasse pubblicamente di poter fare a meno dell'acqua»), il suo definirsi «scrittore mistico», impossibilitato, per i suoi «legami di sangue con l'intelligencija russa» non solo a scrivere «un dramma comunista», ma anche a essere «uno scrittore compagno di strada, fedele all'idea del comunismo»... Meno noto, soprattutto ai primi, è che di lettere a Stalin Bulgakov ne scrisse almeno cinque, dal 1929 al 1938, quando perorò con coraggio, ma senza successo, la causa del commediografo Nikolaj Erdman esiliato prima in Siberia e poi a Kalinin, intervallate da missive indirizzate a A.S. Enukidze, segretario del Comitato esecutivo centrale dell'Urss, nonché amico personale di Stalin e a Maxim Gorkij, potente quanto ambiguo protettore della letteratura russa. «Concordo pienamente con il fondato giudizio negativo che lei ha dato del libro di M. Bulgakov» scriverà Gorkij a chi ne aveva censurato la Vita del signor de Molière, e però anni dopo si darà da fare perché un suo lavoro andasse in scena...

Meno noto ancora è che, a seguito della celebre telefonata di Stalin successiva alla lettera all'inizio citata, Bulgakov avesse scritto Dialogo al Cremlino, ovvero il resoconto in forma teatrale, e da lui recitato per una ristrettissima cerchia di amici fedeli, della sua mai avvenuta convocazione, con il baffuto dittatore georgiano che strapazzava Jagoda, costringeva lui, Molotov e altri a cavarsi gli stivali per darli allo scrittore, trascinato lì in ciabatte e brache di tela, provocava, ogni volta che telefonava, la morte per infarto di chi si sentiva apostrofare all'apparecchio e trovava i sopravvissuti entusiasticamente d'accordo nel mettere in scena Bulgakov e per di più pagarlo: «Ma bene, pagate, pagate! Ecco fatto, vedi Misha - lo chiamava così, familiarmente - e tu che dicevi...».

Questo straordinario impasto di persecuzione e di coraggio, di suppliche mai vili e di insopprimibile vena satirica nonostante la sua condizione di scrittore condannato a tacere, «ma se uno scrittore vero tace, per lui è la fine», e quindi di «sepolto vivo», torna d'attualità e si impone a chi voglia leggersi proprio quel Vita del signor de Molière che ora, in occasione dei quattrocento anni della nascita del francese, esce per la prima volta in edizione integrale in Italia (di quante censure, in vita e in morte, è lastricata l'esistenza di Bulgakov!), per la traduzione e la cura intelligente e appassionata di Serena Prina (Feltrinelli, pagg. 331, euro 12). Si comprende cioè benissimo perché fra il 1932 e il 1933, ovvero negli anni immediatamente successivi a quella prima lettera, Bulgakov si impegnasse in un libro del genere, una biografia sui generis, nonché in adattamenti teatrali e traduzioni del grande autore francese. In La cabala dei bigotti, la pièce che vedrà il sostegno prima ricordato di Gorkij, viene del resto reso in modo fulmineo il senso dell'interesse di Bulgakov per chi, come l'autore di L'avaro, per tutta la vita era stato costretto a inseguire la protezione regale per difendersi dalla canea aizzatagli contro da cortigiani e colleghi gelosi. All'indomani della morte di Molière, alla fine stroncato da tensioni, pettegolezzi, amarezze, invidie, così Bulgakov riassume il tutto. «Che cosa è stata mai la causa di tutto ciò? Che cosa? Che devo scrivere? La causa di tutto ciò è stata l'aver perso i favori del re o la cabala nera?... La causa di tutto ciò è stata il destino. Ed è così che scrivo».

Molière è insomma lo specchio-destino nel quale Bulgakov si guarda e si riconosce. C'è un potere assoluto, con cui si deve comunque venire a patti, ovvero soggiacere, per non venirne schiacciati; c'è una società, letteraria e no, sempre e comunque servile; c'è il confronto con uno scrittore, come nota Serena Prina, «avvolto dal mistero, i cui manoscritti sono andati tutti perduti, del quale è rimasto un foglietto con poche parole annotate in fretta, e una firma isolata, un uomo che ha segnato indelebilmente la storia del teatro del suo tempo e del tempo a venire, dalla vita infelice, un malinconico». Proprio l'immortalità letteraria, nonostante tutto e tutti, è la chiave di volta dell'immedesimazione di Bulgakov, l'idea di un'opera che sfidi e superi i tempi, quella stessa per cui «i manoscritti non bruciano» e la scrittura è il risarcimento postumo e la vittoria su ogni tirannia che contro di essa si è accanita.

Così come Molière, anche Bulgakov subì tuttavia la seduzione di un potere tanto assoluto quanto capriccioso, e nutrì in fondo la stessa illusione che quel potere avesse la capacità di comprenderlo oltre che difenderlo. Era una seduzione temperata dalla capacità di coglierne al suo interno quegli elementi di ottusità e di crudeltà che la rendevano comunque odiosa. Nel ricordato Dialogo al Cremlino, l'apparente bonomia staliniana mette comunque i brividi...

Va comunque detto che Stalin, a suo modo, apprezzava Bulgakov. Era un appassionato spettatore della riduzione teatrale di La guardia bianca, perché in fondo metteva in scena la sconfitta di una causa e quindi l'invincibilità del bolscevismo. Non a caso, il 3 luglio 1941, allorché l'avanzata tedesca sembrerà non trovare ostacoli, parlando alla radio Stalin userà le stesse parole che Alexej Turbin, il giovane studente eroe del dramma, aveva pronunciato in scena all'inizio del terzo atto: «Mi rivolgo a voi, amici miei»...

Vita del signor de Molière, a quasi un secolo dalla sua composizione regge splendidamente il tempo, non solo per il suo valore letterario, ma per la conoscenza di cui è intessuta: Bulgakov si era documentato a fondo, era perfettamente in grado di ricostruire un clima e un'epoca, aveva, lo abbiamo detto, la capacità di entrare nella psicologia del suo protagonista perché idealmente era la sua: avevano combattuto gli stessi nemici, erano ambedue degli innovatori, erano consapevoli del proprio valore, sapevano che comunque l'avrebbero pagata cara... Serena Prina riporta la critica con cui il libro venne respinto dagli zelanti editor della casa editrice che avrebbe dovuto pubblicarla: «Il tipo di narratore da lei scelto non solo ignora l'esistenza del cosiddetto metodo marxista di analisi dei fenomeni storici, ma gli è addirittura estraneo in generale qualsiasi sociologismo, persino secondo la comprensione borghese del termine»... Inoltre, c'era troppa «passione per gli aforismi e le arguzie», troppo collegamento con la sua biografia di autore censurato, nonché il suo essere «chiaramente incline al monarchismo»... Da riscrivere, insomma. La risposta di Bulgakov è esemplare. «Lei capisce bene che, avendo scritto il mio libro in un verso, non posso certo riscriverlo nel verso opposto. Mi faccia la cortesia! (...). Seppelliamolo e mettiamoci una pietra sopra».

In Vita del signor de Molière ci sono due passaggi tipicamente bulgakoviani, nel senso delle biografie che si incontrano e si riconoscono. Uno vede il drammaturgo francese occupato a dare fuoco al manoscritto di Coridon, come farà Bulgakov con parte del Maestro e Margherita all'indomani dell'arresto di due scrittori satirici suoi amici. L'altro è l'immagine di Molière come «un lupo solitario, che avvertiva sul collo il fiato di cani eccitati». È la stessa che appare in una delle lettere a Stalin: «Nell'ampia arena delle belle lettere in Urss io sono stato l'unico lupo letterario. Mi hanno suggerito di tingermi il pelo. Un consiglio assurdo. Un lupo dal pelo tinto, un lupo dal pelo rasato, comunque sia non assomiglierà mai a un can barbone. Con me si sono comportati come si fa con un lupo. E per diversi anni mi hanno ricacciato dentro un recinto, secondo le regole di un qualsiasi allevamento letterario».

Solo, dimenticato, sfinito, Bulgakov morirà nel 1940, a 49 anni. Un anno prima aveva accettato una proposta del Teatro accademico d'arte di Mosca, lo stesso che, grazie all'intervento di Stalin, lo aveva assunto come aiuto-regista, un impiego che lo salvava dalla fame, ma non dalla sua condizione di reietto. Si trattava di scrivere un dramma proprio sulla vita di Stalin, in linea con il dettato teatrale del tempo, valido per ogni compagnia. Bulgakov accettò, scrisse Batum, incentrato su un episodio della vita di Stalin nel 1902, e anche qui si può avanzare un paragone con le dediche al Re Sole di Molière... Il risultato però fu, come ha scritto Marco Alessandro Curletto nel suo preziosissimo Lettere a Stalin, uscito ormai trent'anni fa per Il Melangolo, che quello che ne veniva fuori era «una specie di eroe romantico, protagonista di gesta inventate». E Stalin lo vietò.

Ancora una volta, per l'ultima volta, il sole ingannatore del Piccolo padre giocava con le sue luci e le sue ombre e rigettava lo scrittore nell'oscurità. Eppure è ancora e sempre la stella di Bulgakov quella che oggi continua a brillare.

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