C'è del pensiero in Italia: ecco dove

Una mappa degli intellettuali più originali del XX secolo. Liberali, cattolici ed eretici sugli scudi

C'è del pensiero in Italia: ecco dove

Luigi Cimmino e Stefano De Luca, sulla Rivista di Politica diretta da Alessandro Campi hanno raccolto undici profili di filosofi del diritto, scienziati politici e filosofi della politica che hanno segnato, in vario modo, la cultura italiana dell'ultimo mezzo secolo. Ne è risultato un denso fascicolo, Il pensiero politico italiano: materiali, profili e interpretazioni, che l'editore, Florindo Rubbettino, dovrebbe raccogliere in un volume autonomo, possibilmente arricchito di altre figure di studiosi non meno rilevanti. Tra i medaglioni intellettuali, quasi tutti di pregevole fattura, fanno la parte del leone i filosofi liberali: Carlo Antoni (Alberto Giordano), Lucio Colletti (Giuseppe Bedeschi), Nicola Matteucci (Angelo Panebianco), ai quali andrebbero aggiunti i due scienziati politici di ispirazione liberale Giovanni Sartori (Sofia Ventura) e Mario Stoppino (Francesco Battegazorre). Uno spazio decisamente minore, invece, è assegnato ai cattolici, qui rappresentati da Sergio Cotta (Francesco D'Agostino) e da Augusto Del Noce (Paolo Armellini) nonché da Gianfranco Miglio (Lorenzo Ornaghi), ai liberalsocialisti, ai libertari e ai marxisti presenti rispettivamente con Norberto Bobbio (Gianfranco Pasquino), con Bruno Leoni (Antonio Masala), con Mario Tronti (Pasquale Serra). L'impegno di Cimmino e De Luca merita un deciso consenso ma qualche rilievo va pur fatto ai loro collaboratori, anche per reagire al brutto andazzo delle recensioni scritte solo per dir bene dei libri e degli autori.

Non tutti gli studiosi che si sono cimentati nell'impresa, infatti, si sono guardati dall'esaltazione retorica come ha fatto Giuseppe Bedeschi a conclusione del suo profilo: «Se ci interroghiamo sul contributo che Colletti ha dato alla cultura democratico-liberale, è mia convinzione che tale contributo vada cercato nella sua critica ai capisaldi del marxismo e del leninismo (critica che si sviluppo è bene ricordarlo e sottolinearlo quando essi godevano ancora di un larghissimo consenso).Una volta passato su posizioni democratico-liberali, Colletti scrisse interessanti articoli su autori e testi centrali per la tradizione liberale, ma senza dare contributi innovativi sotto il profilo teorico. Gli altri contributori, per lo più, hanno preferito sorvolare sugli aspetti più problematici delle loro «guide intellettuali». Sofia Ventura, ad esempio, nell'ottimo saggio su Giovanni Sartori, dopo averne analizzato le tematiche più salienti, non dice nulla delle critiche da lui rivolte al multiculturalismo e a questa Europa, come se non avessero alcun nesso con la sua concezione della democrazia liberale, minacciata dalla dissolvenza di un'opinione pubblica caratterizzata da valori forti, omogenei e specifici. Qualche perplessità suscita, altresì, il medaglione su Norberto Bobbio intellettuale pubblico che si sofferma su testi come Politica e cultura (1955), Quale socialismo (1976), Il dubbio e la scelta (1993) che quasi nulla dicono del filosofo del diritto, del fine analista dei classici del pensiero politico, del teorico consapevole del rapporto conflittuale tra diritti di libertà e diritti sociali. A riprova della sua fedeltà all'azionismo (una political culture che la storiografia revisionista ha da tempo messo in soffitta), Pasquino forse il migliore degli allievi diretti di Bobbi - definisce il suo maestro «né comunista né anticomunista» senza chiedersi come potesse piacere tale definizione a un vero liberal-democratico che l'avrebbe considerata analoga all'altra: «né fascista né antifascista».

Un discorso in parte analogo può farsi per altri contributi del fascicolo. Ad Antonio Masala che vede in Leoni un liberalismo diffidente del «liberalismo temperato», si potrebbe obiettare: ma allora escludiamo da liberalismo anche Tocqueville e, nel XX secolo, lo stesso Luigi Einaudi, Carlo Antoni (di cui tratta nel suo bel saggio Alberto Giordano), Guido De Ruggiero, Vittorio de Caprariis? E a Lorenzo Ornaghi, che sembra quasi dar patenti di originalità e di profondità a quanto scrive Gianfranco Miglio sul Risorgimento, potrebbe chiedersi quale sia il «tasso di scientificità» di un giudizio storico, che azzera, in sostanza, gli studi dedicati al processo unitario dal più prestigioso laboratorio storiografico che l'Italia abbia mai conosciuto quello dei Rosario Romeo, degli Adolfo Omodeo, dei Federico Chabod, dei Gaetano Salvemini. E un discorso diverso ma in parte analogo andrebbe fatto per il Del Noce del pur bravo Paolo Armellini.

Purtroppo lo spazio non mi consente di occuparmi degli scritti migliori del fascicolo - quelli di Angelo Panebianco (su Matteucci) e di Francesco Battegazzorre (su Stoppino) ma qualcosa debbo pur dire del più controverso, il saggio su Mario Tronti di un valente studioso come Pasquale Serra).

Era proprio il caso di privilegiare, in ambito marxista, un pensatore che per la tortuosa complessità del suo itinerario intellettuale e per il suo linguaggio misteriosofico spiega perché gli irriducibili antagonisti del capitalismo non turbino minimamente il sonno della borghesia?

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